“Ed insomma, nella vostra esperienza di appassionati di musica, quante volte l'ascolto di un disco è stato accompagnato da una sincera e stupita ammirazione per quanto era bello ciò che stavate ascoltando? Quante volte già a metà disco vi si è disegnato sul volto un candido sorriso, che vi è rimasto fino al termine della giornata, e fin quando avete mantenuto memoria delle canzoni che avevate ascoltato? Quante volte avete avuto il desiderio, poi realizzato o meno, di mettervi in contatto con la band solo per ringraziarla, e di cuore?”
Queste parole le scriveva Gilles Nicoli su Movimenta, quando c’era ancora Movimenta -e quindi era davvero una vita fa. Vent’anni, per essere esatti, celebrati per convenzione un giorno imprecisato del settembre 2023. Per me iniziò così, in maniera banale: in pagina c’era la recensione entusiasta del disco di un gruppo che non conoscevo, e la mattina dopo ero riuscito a scaricarlo, con la fatica che si compete a chi all’epoca viveva impantanato nelle sabbie mobili del 56K. Autore: The Wrens. Titolo: The Meadowlands.
Non so rispondere alle domande che pone Gilles nella recensione, o forse non voglio farlo perché sono un fedifrago cronico, e mi innamoro della musica nuova con un niente, e sono disposto a spogliarmi di tutti i beni terreni per salire sul carro della mia ultima cotta musicale -poi si ricomincia pian piano a ragionare, la musica va avanti e si torna al noioso tran tran della vita di tutti i giorni, in attesa della prossima cotta, e con un pugno di alleati fedeli che rimangono a portata di mano e continui ad ascoltare da mane a sera. Entrare in quel gruppo è difficile anche per i dischi belli. Ci sono capolavori immortali di cui non mi fido (come tutti, penso) e dischi di valore medio o scarso a cui ho affidato un pezzo di anima (come tutti, penso). E poi ci sono altre cose; c’è qualche disco che ci ha colpito forte e ci ha steso per terra da subito, e ci piace ricordare quei momenti, forse perché ci fanno pensare di essere dei predestinati e la via di Damasco e tutte quelle idiozie lì. E ci sono dischi che ami perché sono lì, li odiavi e poi li hai suonati in un certo momento, e da allora accompagnano tutta la tua vita adulta, e continui a suonarli nello stereo e diventi progressivamente quella musica, come la teoria di Mago in Taxi Driver. Finché a un certo punto ti illudi di essere stato sempre quella cosa, di aver cercato per tutta la vita quel disco che a un certo punto hai scoperto avere un autore e un titolo. Mi piace di tanto in tanto rileggere la recensione che scrisse Gilles, e mi piacerebbe poter dire di aver pensato lo stesso ma non è così -mi sento abbastanza a posto con questa cosa, e del resto non passo il tempo a pensare agli ex della mia fidanzata, se capite cosa intendo. Ma la recensione mi convinse comunque ad ascoltare il disco, che mi piacque molto, anche se non più di altri dischi usciti in quel periodo. Poi, semplicemente, ho continuato ad ascoltarlo, e ci ho sempre tirato fuori qualcosa, e da quel momento1 sono passati vent’anni. Vent’anni segnati da diverse cose ma anche, e direi soprattutto, dall’attesa di un nuovo disco degli Wrens, che era sempre imminente, e non è mai arrivato.
Per il ventennale di The Meadowlands sono uscite diverse retrospettive del gruppo. Mi piace in particolare quella che Ian Cohen firma su Stereogum, che dà conto sia delle condizioni di realizzazione del disco in sé sia del modo in cui queste condizioni, e la storia in generale del gruppo, sono finiti all’interno dell’album. Mi permetto comunque un rapidissimo riassunto, dando per scontato che qualcuno di quelli che leggono non abbia mai sentito parlare di questa band. Se siete al corrente di tutto direi che potete saltare un paragrafo.
Nel 1996 gli Wrens stanno per uscire con il loro capolavoro, il disco della maturità. Si chiama Secaucus ed è pubblicato da una piccola etichetta newyorkese di nome Grass Records, di cui in un paio d’anni sono diventati il gruppo di punta. Il disco è un oggetto curioso: un disco di alternative americano (facciamo Pavement meets Jawbreaker), suonato con piglio da gruppo britpop ma senza piaggeria. Sono anni di frenesia nel rock indipendente: le chitarre vendono tanto, e tutta la roba che esce sul mercato viene vagliata con più scrupolo del solito per evitare che il prossimo Kurt Cobain passi sotto traccia. È su questo spirito che, negli stessi giorni in cui Secaucus sta uscendo nei negozi, anche Grass Records cambia nome e proprietà. È stata acquistata da un investitore di nome Alan Meltzer, proprietario di una catena di dischi, che ha in mente di saltare (in società con la moglie) sul carrozzone dell’alternative, tirare qualche spinta qui e là e mettersi alla guida. Il centro del progetto paiono essere proprio gli Wrens: disco fresco nei negozi, entusiasmo critico già palpabile. La band (nata proprio a Secaucus, New Jersey) si vede piovere addosso l’offerta di un contratto nuovo di zecca, che mira a farli diventare delle star di fama mondiale -investimenti pubblicitari, management, budget stellari per registrare, tutto a carico dell’etichetta. Un sogno. L’unica cosa che il gruppo deve concedere è una parte del controllo artistico della musica: permettere che Wind Up abbia voce in capitolo sulle scelte produttive, sui suoni da utilizzare e (in generale) su tutto quel che c’è da fare per far finire i pezzi in radio. Se uno ascolta Secaucus, un disco pop ruvidissimo e strutturalmente iper-complesso, può comprendere almeno in parte lo scetticismo della band in relazione a questo repentino cambio di clima intorno a sé. Bissell, Whelan e gli altri decidono di non firmare. L’etichetta si concentrerà su un orrendo gruppo della Florida di nome Creed, che arriveranno effettivamente al successo mondiale, e darà il benservito agli Wrens. La trattativa si porta dietro un cadavere eccellente, quello di Secaucus: un disco nuovo di zecca e osannato dalla critica che finisce fuori catalogo a poche settimane dall’uscita e rimane per otto anni in un limbo legale. La band, nel frattempo, ha abbandonato i sogni di gloria di metà anni novanta ed è risorta come impegno part-time dei suoi membri. Ma la precisione ossessiva delle parti coinvolte, farà sì che The Meadowlands, il successivo disco degli Wrens, impieghi sette anni, un’infinità di session e altri due contratti discografici per uscire. Nota: The Meadowlands è il nome di un’area del New Jersey, attigua a Secaucus, dove la band si è trasferita dopo la perdita del contratto: i membri hanno vissuto nella stessa casa per anni, dove tra l’altro era allestito lo studio di fortuna in cui sono state registrate quasi tutte le versioni dei brani finiti nel disco.
La carriera degli Wrens dopo il successo critico di Meadowlands era facilmente prevedibile, a posteriori. Meadowlands è un disco molto maturo e molto risolto. La quasi-totalità dei brani parla di non essere più il ghepardo di una volta, della fine delle illusioni, dei modi in cui la vita si mette tra la persona che sei e la persona che vorresti diventare, del bisogno di sprecare occasioni che non si ripeteranno più (13 Months in 6 Minutes). Il disco è la lucida riflessione di un gruppo di dopolavoristi che stanno avvicinandosi ai 40 e stanno cercando di tenere in qualche modo la musica dentro la loro vita. Più nel concreto, le carriere dei vari membri fanno sì che stare 18 mesi in tour per consolidare l’innegabile successo critico del disco sia impensabile. L’onore di canonizzare l’indiepop toccherà ad altri gruppi di livello paragonabile come Wilco (2002) e Arcade Fire (2004), la cui esistenza è ancora segnata per motivi diversi dalla musica. Gli Wrens finiscono nel tritacarne dei gregari e fanno quello che fa ogni gruppo nella loro condizione: vivono, lavorano, suonano un po’ in giro e a un certo punto iniziano a mettere insieme il materiale per registrare un altro disco. La cronologia successiva non è tanto interessante quanto il modo che ha il gruppo di portarla avanti: aggiornamenti continui, puntuali e saltuariamente ottimistici.
Gli Wrens sono soprattutto espressione della personalità dei due autori del gruppo. La dinamica tra i due, nei risultati musicali, ricorda molto da vicino quella degli Husker Du. Kevin Whelan è il Grant Hart della situazione, ha un bagaglio pop che tira dalla parte degli anni sessanta e una voce più chiara che sembra dare qualche sprazzo di luce ai testi, un certo titanismo, forse l’impressione di non essersi ancora arreso del tutto. Charles Bissell è il Bob Mould, ha un modo più brutale di metterla giù, un atteggiamento più pessimista -e gli piace suonare più forte. È molto più fatalista, pessimista e (probabilmente) perfezionista degli altri del gruppo, e forse è frustrato dalla mancanza di controllo assoluto nella musica. Il fatto che sia lui a tenere i contatti del gruppo con il mondo esterno lo rende, per molti versi, il personaggio al centro della storia. L’eterna incompiutezza degli Wrens rispecchia in qualche modo il senso d’incompiuto che sembra percolare dagli sporadici post che Charles Bissell ha pubblicato nel corso degli ultimi vent’anni. L’accumularsi di speranze e frustrazioni intorno al disco degli Wrens ha dato vita a un vero e proprio genere letterario, su cui a dispetto della fama (tutto sommato molto modesta) del gruppo al di fuori del circolo degli indierocker più assatanati, si sono buttati in tanti. Avete presente, ad esempio, le liste dei “most anticipated albums of next year” che vengono pubblicate a dicembre? Se fosse possibile recuperarle tutte, troveremmo il fantomatico nuovo album degli Wrens in almeno dieci annualità diverse. A prendere per vero tutto quello che è uscito dalle pagine ufficiali del gruppo, il nuovo disco degli Wrens è stato almeno tre volte a un passo dalla distribuzione; sono stati firmati dei contratti, bisognava definire alcuni dettagli, abbiamo avuto qualche problema a finalizzare alcune cose -ma ora ci mettiamo. Da una parte è sempre stato chiaro a tutti i fan degli Wrens che i membri della band (in particolare Whelan, il cui day job è una posizione apicale in una multinazionale farmaceutica) avevano altre cose per le mani e lavoravano all’album nei ritagli di tempo; dall’altra aver realizzato un disco così definitivo e importante ti mette nella posizione di dovere qualcosa all’inconscio dei tuoi fan, di sottostare a un insieme di regole non scritte: se non ti sei sciolto sei in attività, e se sei in attività stai lavorando a nuova musica, e se stai lavorando a nuova musica il disco prima o poi uscirà.
It’s been so long
Since you’ve heard from me
Got a wife and kid
That I never see
And I’m nowhere near
What I’d dreamed I be
I can’t believe
What life’s done to me
Se la parentela tra Wrens e Husker Du è una teoria percorribile, il testo di The House That Guilt Built può essere letta come un ideale sequel di These Important Years in cui le rose ti sono più o meno finite sopra. Non ho idea di quale fosse la mia disposizione d’animo nei confronti di Meadowlands negli anni in cui il disco metteva la testa fuori dal granaio. Forse avevo già gli strumenti per comprendere la disperazione quieta di quei testi ma non l’esperienza personale per sentirmeli davvero addosso2. The Meadowlands, dicevo, parla soprattutto di quel passaggio della vita in cui smetti di esistere in potenza e inizi a sentire sulla schiena il peso delle scelte che hai già fatto. Ricordo che ne accennava Daniele sul blog parlando degli Smashing Pumpkins, tutta quella galassia di gesti quotidiani che a un certo punto smettono di far parte della tua vita -l’ultima volta che balli la chiusura in discoteca, l’ultima vacanza da solo, l’ultima piadina salsiccia e cipolla alle tre di notte, l’ultimo bicchiere con un amico che per qualche motivo non vedrai mai più, l’ultimo treno per andare in facoltà, e non sapere mentre lo fai che è l’ultima volta che lo fai, e le canzoni che parlano di questa mancanza. Voglio dire che per certi versi The Meadowlands inizia ad esistere per davvero solo quando puoi sperimentare di persona la coscienza di non essere più in possesso di cose che pensavi avresti sempre avuto in tasca, e questa coscienza prima o poi arriva per tutti. È in qualche modo poetico, insomma, che un nuovo disco degli Wrens sia stato pensato, e scritto, e registrato, e che poi non sia mai esistito.
Pensare a quante cose ho fatto nei ritagli di tempo durante l’attesa del nuovo disco degli Wrens lascia un po’ di amaro in bocca. Sono fidanzato da un sacco di tempo con la stessa persona, faccio da un sacco di tempo lo stesso lavoro. Quando il disco è uscito facevo un lavoro diverso e non conoscevo quella persona. Gli Wrens hanno scritto, e hanno registrato, ed era tutto pronto, poi la vita s’è messa in mezzo. A Charles Bissell era stato diagnosticato un tumore, Kevin Whelan si era trasferito per un po’ dall’altra parte del mondo. La presenza di qualcosa aveva continuato ad aleggiare in qualche modo sullo sfondo, una specie di continuo non finito. Continuo a stupirmi di come il tempo attorno alla musica sia capace di deformarsi -un gruppo se ne sta in silenzio per due anni e sembra sparito dai radar, un altro non fa un fiato per venti e sembra sempre di avere il suo fiato sul collo. È una questione di prospettive. A un certo punto il sottotitolo della pagina web degli Wrens era “in the future everyone will be famous for 15 people”. Ha un suo senso. Faccio orgogliosamente parte di un microcosmo di fanatici italiani, molto ristretto e molto agguerrito, che si fa un cenno ogni volta che arriva un aggiornamento dalla band. Dieci anni fa un disco era “quasi finito”, mancavano gli “ultimi ritocchi”, eccetera. Kevin Whelan a un certo punto si era speso: i nuovi pezzi sono davvero buonissimi. Bissell si era speso in direzione opposta: nessuno dei pezzi pronti è lontanamente paragonabile alla roba di Meadowlands. I ruoli erano già stati assegnati da tempo: Whelan gioviale, arrivista, preso bene; Bissell depresso, ritardatario, complessato. A guardarci troppo di fino sembrava una commedia. L’unico annuncio davvero importante arriva il 21 settembre 2021. È il giorno in cui viene resa pubblica l’uscita di un progetto che si chiama Aeon Station: Whelan ha preso i suoi pezzi, li ha registrati con l’aiuto degli Wrens (senza Bissell) e sta per farli uscire da solista su Sub Pop. È la fine della band. Bissell prende atto e commenta laconico -a questo punto le mie cose usciranno come album solista.
(La fine degli Wrens sembra davvero un altro pezzo di The Meadowlands)
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Il disco di Aeon Station è obiettivamente un grande disco, fatto di grandi canzoni e messo insieme con un cuore enorme. Anche certi dischi di Grant Hart sono grandi dischi, e sono fatti col cuore, ma non sono comunque dischi degli Husker Du. Bissell sta per uscire. Ha celebrato il ventennale di Meadowlands con una lunga serie di approfondimenti (aneddoti sulle varie versioni, sull’allergia da ritornello, sulle date di uscita sfasate e altro ancora) che trovate sulle pagine social del gruppo. Nel celebrare, ha annunciato l’annuncio: il 6 ottobre lancerà il suo progetto solista. Ci credo quando lo vedo succedere, ma sono comunque vent’anni che aspetto. Se succede, proverò a mischiare due dischi solisti in una playlist e vedere se vien fuori una magia. Per intanto spengo venti candeline passate ad aspettare una cosa che non è mai arrivata e a farmela passare rimettendo un disco nello stereo di continuo, che forse adesso ho compreso per davvero.
Chiudo con una piccola curiosità: The Meadowlands in Europa è uscito un’infinità di tempo dopo. Ci fu qualche problema con la distribuzione, e le copie fisiche non arrivavano da questa parte dell’oceano. Ricordo di averlo visto per la prima volta al banchetto che Oscar teneva alla festa di San Giovanni, forse nel 2006: lo presi seduta stante, ovviamente, e trovai una scusa per tornarmene a casa a sentirlo per la prima volta nel CD originale. Fu in quell’occasione che scoprii, quasi tre anni dopo l’uscita, che la versione che girava in mp3 conteneva versioni molto diverse da quelle del disco, in particolare per due dei miei pezzi preferiti (Ex-Girl Collection ed Everyone Choose Sides, ovviamente di Bissell). Per una questione di gusti preferisco di gran lunga le versioni pirata.
(Il disco è nominalmente uscito il 9 settembre ma per una questione di calcoli strani (tipo: avere la recensione su pitchfork il venerdì, così sarebbe rimasta in homepage tutto il weekend) (giuro) la release sarebbe stata in pagina per tutto il weekend. I calcoli non funzionarono bene, in ogni caso. La recensione di Rian Schreiber uscì il 29 settembre, un lunedì. Ripagò lo scorno con uno dei voti più alti della storia del sito, che fu fondamentale per la corsa del disco.)
da ragazzo pensi che non dimenticherai mai un disco che ti è piaciuto, poi la testa inizia a fare cilecca e non è colpa di nessuno. Mangiate carote finché siete in tempo.