Una quarantina di dischi usciti nei primi sei mesi del 2025
dice che non esce mai niente di buono
è un elenco che ho messo giù nelle ultime settimane con qualche disco che mi fa piacere segnalare. sono tutti bei dischi, non necessariamente i migliori di quest’anno, ma sembra che ci siamo messi in testa che il 2025 sia un anno di crisi musicale, e invece.
ANELIS ASSUMPCAO – DUBS IMAGINARIOS la prima autoradio che abbiamo avuto, parlo di me e di quelli della mia generazione, andava a cassette. La cultura della cassetta è una cultura specifica, che oggi funziona soprattutto a livello di nicchia hip (non supporto e non denigro), e una volta spingeva in qualche modo per un certo livello di selezione all’ingresso: il nastro te lo dovevi registrare dal CD o da un altro nastro, e se non avevi il lettore CD spesso eri costretto a chiederlo agli amici, che avevano pazienza ma non infinita. Senza contare che il bacino di nastri nella tasca laterale di un’utilitaria si riduceva spesso a 6/7 cassette. La combinazione tra assenza di spazio e difficoltà a farsi fare dei nastri generava un sottoprodotto inevitabile, l’utopia del nastro da viaggio. Molti di quelli che erano sottoposti a questa pratica, o almeno io e alcune persone con cui ne ho parlato, avevano nastri del cuore che potevi continuare a suonare con il mangianastri che girava lato A e lato B in automatico, potenzialmente lo stesso disco che continuava ad andare da Cesena a Torino senza mai uscire dallo stereo: se avete mai pensato questa cosa avete anche una lista dei vostri nastri-viaggio. Ecco, del nuovo disco di Anelis Asumpção non ho letto moltissimo e so solo che è il gemellino dub di un album di qualche anno fa, dovrebbe essere uscito verso marzo ma io l’ho scoperto solo nelle ultime settimane. Ma se l’avessi avuto a disposizione tra la fine dei novanta e i primissimi duemila ho come il sospetto che sarebbe stato un forte candidato ad essere un nastro da viaggio.
ALABASTER DEPLUME – A BLADE BECAUSE A BLADE IS WHOLE per dire che in questa lista sono presenti dischi che saranno presenti in molte altre liste, voglio dire, non è che voglia fare lo snob ad ogni costo o cose del genere. però per questi dischi molto spesso non ho da dire niente che non sia stato detto in altri posti o (nel caso di specie) in altri dischi di Alabaster DePlume, per esempio.
ALAN SPARHAWK WITH TRAMPLED BY TURTLES – S/T ho già approfondito in un episodio separato della newsletter, non mi metto daccapo a riscrivere, sono molto
BAD BUNNY - DEBI TIRAR MAS FOTOS qui ammetto di essere molto meno entusiasta oggi di quanto ero nelle prime settimane in cui il disco circolava e forse all’orizzonte sta per comparire qualche altra nuvola. È che il disco è uscito nei mesi invernali e nella mentalità dell’epoca credo che ce lo fossimo tutti immaginato come il prodotto di un’intelligenza artificiale buona e gentile che era riuscita a mescolare nuovo Portorico ad antico Portorico e mostrare la via al mondo intero. Nei riascolti più recenti ho iniziato a sentirci un’idea di artificioso che me lo sta un po’ smontando, anche se poi il disco è rimasto in lista -perché comunque è bello e matto, ed è anche la testimonianza di un periodo in cui tutto nel pop sembrava un pochino fiacco e Bad Bunny dava l’idea di essere arrivato d’improvviso a portare qualche borraccia.
BEN FROST – UNDER CERTAIN LIGHT AND ATMOSPHERIC CONDITIONS può essere identificato come una seconda spremitura di Scope Neglect ma anche una specie di tour diary. Metto la descrizione che lo stesso Frost usa su Bandcamp perché mi piace particolarmente: “Under Certain Light and Atmospheric Conditions is built upon two years of live shows, soundcheck improvisations, and field recordings. It is a 38-minute dreamspace of jet lag, melatonin supplements, roaring crowds, and failing technology.” Di fatto è l’ennesimo episodio di una discografia in cui Ben Frost riesce in quello che quasi tutti gli altri falliscono miseramente, ovvero dare una forma palpabile a un’idea contemporanea di (chiamiamolo) cyberpunk in cui il monte di riferimenti è aggiornato ai cinquant’anni di cultura che sono passati da allora a oggi e si può spremere qualche altro paesaggio desolato dall’immaginario.
BENJAMIN BOOKER – LOWER al di là di essere uno dei dischi su cui torno più spesso e con maggior piacere, ha il pregio di sembrare una strada percorribile della musica popolare, di essere un disco le cui idee superano di molto l’ansia di dover presentare qualche idea, se capite cosa intendo.
BILLY WOODS – GOLLYWOG niente da dire che non abbiate già sentito in posti dove scrive gente più competente.
BLUE YOUTH – DEFEATIST non voglio essere drammatico ma penso che l’attesa del nuovo Young Widows per me sia stata in qualche modo un freno alla possibilità di godermi il noise rock come atto quotidiano della creazione e una volta incassato lo scorno per la sostanziale insignificanza del nuovo Young Widows era abbastanza naturale cercare quella roba lì (noise rock crasso col basso sbrang e la gola che ti esce dai denti) in giro per il mondo, ed è abbastanza evidente che basta stare seduti in riva al fiume per veder passare dischi come quello dei Blue Youth -i quali hanno comunque il sapore di roba che serve ascoltare per tenere insieme la brocca.
CAROLINE – CAROLINE2 il giorno che è uscito il disco dei Caroline era disco della settimana su Stereogum, Quietus e Pitchfork, non sono necessariamente d’accordo con tutte le parole spese verso il disco in questi posti ma caroline2 ha un modo di buttarsi via (nel senso, girare a vuoto, mandare in vacca il potenziale, caricare senza scaricare) che mi esalta abbastanza.
CASINO ROYALE – FUMO ma non lo so, sono fan di tutta questa idea di dischi a spirale che collassano su se stessi in favore di pubblico, è una cosa mia, suppongo che sotto altri punti di vista il nuovo Casino Royale sia una roba un po’ povera.
DEATH IN VEGAS – DEATH MASK I Death In Vegas (che in realtà ora sono solo Richard Fearless) pubblicano poco e quando lo fanno sono dischi che stanno ormai in un territorio delimitato da dei muri molto alti (molto minimale, molto clubbing, vintage industriale/EBM, comunicativa pop ridotta al minimo). Hanno dato questa svolta per sopravvivere, forse perché fanno parte di un novero di artisti che suona troppo come il contesto che li ha prodotti. Secondo me è stata una bella decisione, uno si sente While My Machines Gently Weep (gran titolo) e ci sente qualcosa più di quello che c’è, non è detto che illudere chi ascolta sia un male -basta essere chiari da principio e far capire che c’è il trucco.
DEERHOOF – NOBLE AND GODLIKE IN RUIN è il ventesimo disco dei Deerhoof e mi rifiuto di ricominciare dall’inizio a spiegare perché sta nella mia lista.
DUDE CENTRAL – WISCONSIN uno di quei cantautori indiescrausi che ti capita di ascoltare per misteri insondabili dello zeitgeist. Io non l’avevo mai fatto prima di questo disco, che se Tidal non mente è il terzo album pubblicato da Dude Central in otto mesi, questo per dire della profondità e della ricercatezza delle composizioni che andrete ad ascoltare in caso vogliate degnarvi. Anche qui, è francamente difficile capire se l’amore per il disco sia legato alla fragilità delle canzoni o al fatto che godo ad ascoltare melodie inesistenti a bassissima fedeltà, ma se avessi un euro da scommettere lo butterei sulla fragilità.
GHOST DUBS – EXTENDED DAMAGED VERSIONS è l’inevitabile gemello dub di un disco che l’anno scorso ci ha rimesso un po’ insieme a livello di razza umana. Devo essere onesto e spiegare anche che io reagisco come i cani a questo genere di dischi, perché la prima incarnazione dub che ho conosciuto è più o meno questa (nel senso, quando negli anni ottanta uscivano i dischi remix di dischi tipo Songs Of Love and Hate dei Godflesh ed erano più belli degli originali), e quindi per la mia percezione mentale del dub la gente del giro Broadrick/Martin è più roots di Lee Scratch Perry.
GO DUGONG/ALFIO ANTICO – LA MACCHIA di gran lunga il mio preferito dei tre (tutti bellissimi) dischi con cui ha esordito Baccano, l’etichetta-satellite di Luiss University Press. A un certo punto di Baccano si è discusso parecchio, in diversi casi per dissociarsi dal progetto. Alcuni articoli erano tipo “sono dischi della madonna ma escono per l’etichetta aperta da un’università privata fondata da Umberto Agnelli” (riassumo liberamente dal un articolo che leggevo poco fa). L’analisi non è più profonda di così, non è che ci siano in ballo dei discorsi sui soldi che girano attorno alla cultura, su chi li metta, chi li prenda, quale sia il posto di ognuno nello spettro culturale e nella bilancia dei costi-guadagni; e quindi di conseguenza isolare il modello, comprenderlo e cercare di capire se (banalizziamo ma non quanto le fonti di cui sopra) decidere che un certo tipo di cultura è contro-cultura, che può esistere solo attraverso lo scambio di soldi e favori degli appartenenti al circolo e senza nessun apporto esterno e di conseguenza stabilire che ad esempio i festival di contemporanea sponsorizzati dalle case automobilistiche o gli eventi patrocinati dagli enti pubblici sono un problema e non una soluzione -e nel caso quale sia il ruolo di ognuno di noi, voglio dire, io posso permettermi di mandare questa newsletter gratis perché faccio un altro lavoro per un’azienda che fa capo a un fondo internazionale, quali altre aziende fanno parte del pacchetto di questo fondo?, eccetera eccetera. Questa sarebbe una discussione molto figa da avere, mi piacerebbe molto che avvenisse e provare a dare il mio contributo. Ma sarebbe una discussione diversa da quelle che si hanno, su cui non ci si può posizionare (al limite ci si può sacrificare), e pace. Se invece vogliamo fare carne di porco posso senz’altro contribuire alla discussione approfittando del fatto che ho una newsletter: il tizio che ha ideato Baccano è uno dei miei più cari amici, conosco per certo il suo amore per la musica e posso giurare sul fatto che sia animato dalle migliori intenzioni, il che naturalmente mi rende parte in causa e solleva un interessante quesito: meglio fidarsi dell’opinione biased di uno che conosce Daniele di Baccano Dischi o dell’opinione unbiased di qualcuno che non ha la più pallida idea di chi sia?
GUE’ – TROPICO DEL CAPRICORNO ma avrei potuto mettere anche il disco con Rasty Kilo che è uscito più di recente, e che è sempre bello come tutti i dischi di Guè, e si può senza dubbio discutere del gusto personale mio ma non del fatto che i dischi di Guè rifiutino spesso la formulina e si sbattano come pazzi per dare anche agli ascoltatori generici un motivo specifico per ascoltarli. Su Tropico del Capricorno sto sragionando da tempo, mi pare un disco estremamente complesso e che giochi sulla contrapposizione di due anime che hanno convissuto fino a questo momento e ora stiano iniziando ad odiarsi un po’. Ma magari è un’illusione personale, non lo so. Nel caso, bisogna quantomeno dare merito al disco di dare dei margini di interpretazione a chi lo ascolta e non arrivare dritto addosso.
HAUNTED HORSES – DWELLER è un disco che si ricollega a tutto quel giro hardcore trasversale che funziona in questi anni. La premessa culturale su cui si reggono l’accacì e il metal estremo dalla fine degli anni duemila, grossomodo, è che non si può più fare la musica estrema facendo la musica estrema perché è già stato detto tutto e tutti i suoni di chitarra sono stati provati eccetera eccetera, e quindi per fare veramente il punk bisogna fare il non punk. Una volta accettata la premessa, che secondo me scricchiola ma vabbè, si può seguire due strade diverse. Da una parte c’è quella dei Turnstile, che mettono elementi di disturbo nella loro roba e scoprono che funzionano e decidono di farli diventare il piatto principale. A me questa roba francamente interessa poco. Dall’altra parte c’è la strada di cose che ci sono piaciute recentemente, esempio facile i Prostitute (disco bello alla fine dell’anno scorso, direi): usare la struttura musicale della musica estrema come base per delle variazioni sul tema, tenendo bene a mente che il tuo ascoltatore medio vuole che tu gli spacchi il culo. Gli Haunted Horses fanno una cosa simile, escono sulla mai troppo lodata ThreeOneG e fanno fondamentalmente musica industrial suonata come se fosse punk hardcore. L’effetto è simile a quello che abbiamo provato la prima volta che abbiamo sentito l’ultimo disco dei Daughters e prima di sapere le brutte storie sul cantante dei Daughters.
HISTRIONIC – ARCHITECT’S LEAP un disco autoprodotto che ho ascoltato solo perché ha una copertina scema. Loro sono un gruppo emo di Pittsburgh, ragazzetti giovani, amano molto i Get Up Kids, suonano fortissimo e hanno i pezzi -va a finire che il disco te lo metti sempre, tra l’altro sono usciti a maggio e l’emocore coi finestrini abbassati è molto meglio.
I CANI – POST MORTEM gli ultimi dischi degli Shellac venivano registrati durante sporadiche session di un giorno o due, anche a distanza di qualche anno da quando erano stati scritti, e l’album finito arrivava magari sette o otto anni dopo l’inizio dei lavori. Questo per dire che ci sono dischi che ambiscono a documentare il momento specifico di un artista o di una band, e altri che sembrano esistere su più piani temporali in cui la traccia 4 e la 5 non si parlano direttamente. Del disco dei Cani non so nulla, solo che arriva a una decina d’anni di distanza da quello prima. Mi pare molto influenzato dal passare del tempo e dall’evolversi di un certo modo di approcciarsi alla musica, probabilmente mi sbaglio, non so. C’è una metà del disco, pezzi come Madre o Colpo di tosse, che sembra figlia di un approccio crossover trasversale vintage anni ’90 (Cibo Matto, JSBX, Beasties), forse anche lirico, che si discosta molto da quella più Cani della faccenda, non che io abbia problemi con le tracce più Cani dei Cani, ma del loro ultimo disco mi trovo ad amare soprattutto il fatto che non sembri stare lì ad impallinarsi su un’idea.
INTENSIVE CARE&THE BODY – WAS I GOOD ENOUGH? allunga il già impressionante clean sheet dei The Body, che ormai si stanno inesorabilmente trasformando in un concetto puro che sta al metal estremo come Guè sta al mainstream hip hop italiano (forse sto vaneggiando, intendo dire che lo chiami se vuoi portare il tuo suono a un livello di coscienza successiva). Il “concetto puro” dei The Body è il beattone pesantone lentissimo suonato-ma-sembra-sintetico con sotto le urla di una persona che sta venendo scuoiata e gli aguzzini cantano una canzoncina folk per bambini. Lo fanno con cognizione di causa e giocano sugli accenti in un modo per cui è difficile averli a noia, anche se sarei disonesto se non ammettessi che questo disco in particolare si costruisce su un’idea e mezzo ripetuta per tutto il minutaggio con l’obiettivo manifesto di sfinire gli ascoltatori (i quali ormai hanno sgamato la cosa e alla fine del disco rischiacchiano play)
JAMES HOLDEN/WACLAV ZIMPEL – THE UNIVERSE WILL TAKE CARE OF YOU appartiene all’ormai lunga schiera dei dischi di Holden in cui lui e i suoi ascoltatori sono troppo borghesi e annoiati per mettere la cassa nei pezzi, perché noi stiamo pensando al COSMO o comunque a comprarci un appartamentino verso Dobbiaco. Ci sono due aspetti in contrapposizione, in questo viaggio: da una parte i risultati sono sempre più simili a una mastodontica sega mentale di blocchi di musica da 10 minuti l’uno, in cui sembra sempre che Holden stia per togliersi la maschera stile Mission:Impossible e in realtà è Jean Michel Jarre. Dall’altra è innegabile che in molti momenti del disco questi buildup infiniti coi flautini e i versi degli uccelli ti fanno sentire come se stessi ascoltando l’unico tentativo compiuto di suonare tutta la musica mai pensata. Che è una sensazione a cui spesso ti sottopongono la miglior drone music e la miglior ambient, anche se questo disco non è nessuna delle due cose in senso stretto -e io di ambient non ho più molta voglia, in tutta sincerità. Sull’onda dell’entusiasmo mi viene da sbilanciarmi e scrivere che questo disco qua sia la miglior cosa su cui Holden abbia messo la firma dopo The Inheritors, e sospetto che il mio entusiasmo sia decisamente eccessivo ma nel caso è un problema che mi porrò tra qualche settimana. Per ora sta in lista.
JEFFREY LEWIS – THE EVEN MORE FREEWHEELIN JEFFREY LEWIS con cui il segreto meglio conservato del folk americano si iscrive alla lunga lista di artisti che hanno rifatto quella copertina di Bob Dylan. Il disco è registrato a Nashville e si sente, Jeffrey è in uno stato di grazia, le canzoni solo bellissime, il profilo è bassissimo e un modo di esser disco, nell’insieme, che si sente solo nei dischi di Jeffrey Lewis. Si è parlato poco del disco, in effetti non ricordo una singola recensione letta in giro per i posti (ne ho cercate alcune mentre scrivo: la prima che ho aperto inizia dicendo “We don’t deserve Jeffrey Lewis. Songwriting of this quality seems to belong in the halcyon days of the 1990s, when David Berman and Will Oldham were beginning to peak, or even in the distant and rarified climes of Greenwich Village in the 1960s.” Sono d’accordo su tutto a parte sul fatto di non meritarcelo, secondo me ce lo meritiamo in pieno e speriamo di accorgercene in fretta.
KANYE WEST – BULLY non voglio iniziare la pippa su Kanye West, mi spiace che sia finito così ma credo che in fondo abbia voluto finirci con tutta la forza che aveva e anche dopo il merch con le svastiche ci siano dei margini di peggioramento. Credo fermamente che se non fosse di gran lunga il musicista pop più dotato della sua generazione, probabilmente non avrebbe fatto questa fine e Bully secondo me è un esempio perfetto di questa cosa (lo ascolti e ti chiedi da dove venga questa roba, come si faccia proprio a pensarla, presente? Poi rimane un umano con cui non si vuol avere a che fare e un artista che forse ha già visto il suo picco (mentre non faceva uscire in streaming Bully, rimasto per un bel po’ solo sul tubo come visual album, ha tirato fuori Donda 2 e un altro disco, ed entrambi non ho avuto voglia di ascoltarli).
KWASHIBU AREA BAND - LOVE WARRIOR’S ANTHEM la Kwashibu area band è conosciuta soprattutto come backing band di Pat Thomas (un musicista ghanese); a me in teoria questo genere di easy listening riccardone afrobeat non esalta ma il disco è veramente pazzesco, dubbettoni morbidi slabbrati che ti si allargano sotto il culo e intanto il gruppo continua a tirar su dei palazzi di suono.
LUIGI TOZZI – SENTIENT ad ascoltare lui è una raccolta di tracce che ha messo insieme specificamente per i suoi live, e poi da cosa nasce cosa e a gennaio è uscito un EP (in questo mondo abbiamo deciso di non fare i fighetti, un disco da 28 minuti è un disco e può andare in classifica). È una cosa molto diretta, spigolosissima, non ho voglia di parlare di techno, non ho nessun argomento interessante -ma il disco è comunque una bellezza.
MCLUSKY – THE WORLD IS STILL HERE AND SO ARE WE ecco, i McLusky ad esempio sono tornati in un mondo che di loro non aveva bisogno e anzi poteva proprio tranquillamente farne a meno e anzi per certi versi li ho vissuti come se si sentissero il dovere di rompere il cazzo il meno possibile. Se ne facciamo una questione di pura qualità, totalmente slegata dall’anacronismo di default che un gruppo come i McLusky si porta dietro, è un disco che trasuda un entusiasmo e un bisogno di esistere che lo mette tranquillamente tra i cinque-dieci dischi del 2025 che dobbiamo portarci ad ogni costo nel 2026. Poi rimane il dubbio se convenga investire su di loro o su musiche che abbiano un maggior potenziale artistico di lungo corso, e in fondo è giusto che Falco soccomba a questo ideale della musica importante -esiste per combatterlo, ama perdere.
MOGWAI – THE BAD FIRE ricordo di averlo ascoltato nel minuto stesso in cui era uscito. Ero appena uscito dal cinema, avevo visto A Complete Unknown. Brutto film, impostatissimo, troppo ragionato, irritante, parlo solo per me. Serviva qualcosa che mettesse le cose a posto e il disco dei Mogwai era uscito un secondo prima. I Mogwai del 2025 sono i Mogwai, vivono tra il bisogno di non essere banali a se stessi e la sicurezza di non dover dimostrare niente a nessuno. E in questo spirito il disco nuovo non è molto diverso da CODY. Poi va detto che gli anni passano e il disco dei Mogwai suona anche di tutto quel che ti è successo dalla prima volta che CODY l’hai ascoltato. E alla fine non è che tra i Mogwai e Dylan ci siano tutte queste differenze: ognuno ha la sua storia da raccontare e alcune storie sono in conflitto tra loro. Nell’interpretazione classica delle cose del mondo la musica e la vita si rubano l’immortalità a vicenda: a volte la vita continua dopo la musica e a volte la musica continua dopo la vita. Non c’è da incazzarsi troppo, e forse tendo a vivermi certi dischi con troppa intensità, ma in fondo ‘sti gran cazzi. Così quella notte ho fatto un giro per le strade di Ravenna, e non sono tornato a casa finché il disco non è finito. Da quella serata di gennaio i Mogwai hanno fatto un altro disco (la colonna sonora di una serie Netflix) e la Virtus ha vinto un altro scudetto. Sa tutto di presa per il culo.
MOIN – BELLY UP qualche settimana fa grazie a san Beaches Brew sono riuscito a vedere per la prima volta i Moin, per giunta a pochi chilometri da casa mia. Quando ti vedi un gruppo del genere, la roba che in senso lato possiamo chiamare “indie-rock”, la roba con le chitarre, finisci sempre a chiederti quanto di quel che stai sentendo sia percepibile da un mondo che non perde occasione di manifestare la sua crisi di rigetto verso quel genere di minimalismo strumentale. Con i Moin non capita e anzi capita l’opposto, forse perché ci sono i Raime in formazione o forse perché Valentina Magaletti è arrivata ad una sintesi musicale che ha lasciato per strada un milione di catorci inservibili, e per qualche minuto ti sembra di star lì ad ascoltare veramente lo shape of jazz to come, cosa che del resto succede in forma leggermente più interiore con i dischi del gruppo. E mi taccio prima di esporre la teoria secondo cui Valentina Magaletti dovrebbe volontariamente cambiare il suo nome in ‘Magalotti’ ogni volta che suona in Romagna, teoria che credo sia di difficile comprensione fuori dalla valle del Savio.
MURUBUTU – LA VITA SEGRETA DELLE CITTÀ la musica popolare italiana per me dovrebbe essere tutta così, nel senso di artisti/e che fanno specificamente la loro cosa e che questa cosa abbia dei margini di incomprensibilità all’interno del paese (e quindi figuriamoci fuori). Murubutu non ricordo manco più a che disco sia ma sta continuando a cesellare la sua idea di musica e ad affinarla e a tenere una certa distanza dalle persone che l’ascoltano -una cosa che le distanze tende ad annullarle, e così ti ascolti il suo disco e a un certo punto inizi a capire di cosa sta parlando.
NEFFA – CANERANDAGIO VOL. 1 un disco che per qualche motivo pensavamo sarebbe stato una certa cosa e invece è esattamente il suo opposto.
NINA NASTASIA – SONGS FOR A WORLD OF TROUBLE che in teoria verrà approfondito con un pezzo attualmente in bozza sull’altro computer, ma in pratica è probabile non ne leggiate mai -anche perché non è che qualcun altro ne stia parlando. È il primo disco a nome Nina Nastasia non registrato da Steve Albini. Per l’occasione Nina Nastasia ha deciso di mettersi d’impegno e di fare un disco bello quanto i dischi di Nina Nastasia registrati da Steve Albini. Ma del resto se vi sentite l’album di Jolie Laide è facile rendersi conto che Nina è in un momento spettacoloso.
P38 – DITTATURA mettiamo che Nuove BR avesse lasciato il dubbio se la P38 ci sia o ci faccia. Ecco, diciamo che Dittatura manda a casa i dubbi e lascia per terra due o tre certezze.
SANDWELL DISTRICT – END BEGINNINGS la storia è più o meno che i Sandwell District avevano ricominciato a lavorare assieme, e si erano messi a fare la raccolta dell’anno scorso un po’ per ricapitolare, e da lì in poi si era iniziato a lavorare a delle nuove tracce. Poi Silent Servant è morto, e da lì in poi è diventata una specie di tribute band di se stessa, tipo la celebrazione di un’idea primigenia di Sandwell District che non sarebbe più potuta esistere. Il disco ha molto a che fare con questo aspetto dell’umano e del fallibile, tende a stare quasi sempre sotto le righe e a gestirsi in un modo che quasi commuove. L’ultima traccia si chiama The Silent Servant, tutto il castello si tiene su con un certo distacco (molto techno) dalla questione emotiva che però la band non pare essere interessata a nascondere, e questo è più o meno quanto.
SAULT – TEN è un ritorno dei Sault alla forma concreta dei dischi che ci hanno fatto innamorare dei Sault, niente cori o altre robe del genere, funk (cleo) soul brothering dimesso e via andare. Il disco è stato accompagnato da molte polemiche perché è arrivato nel mezzo di una vicenda legale -Little Simz ha fatto causa ad Inflo per via di un prestito di 2 milionidi euro o qualcosa di simile, che lei aveva fatto a lui, in grossa parte per finanziare l’unico concerto dal vivo tenuto dai Sault (una roba ciclopica su cui è andata persa una milionata di sterline, o qualcosa di simile). I dettagli della vicenda sfiorano il grottesco e comprendono anticipi, mosse strane di management, debiti col fisco e altra roba che in tutta franchezza c’è da sentirsi sporchi anche solo a leggerne. La battaglia legale andrà come andrà, quella artistica è già finita (se da una parte ci sono Inflo e l’ultimo Sault e dall’altra ci sono Simz e l’ultimo Simz, siamo già a posto).
SHEARLING – MOTHERFUCKER, I AM BOTH: “AMEN” AND “HALLELUJAH” un disco noiserock di una traccia sola, totalmente allucinata, difficoltà di ascolto dieci su dieci, pura gratuità dell’incomprensibile. Una volta andavi al negozio di dischi, portavi a casa una roba del genere e passavi la vita a consigliarla a chiunque, limitandoti quando andava molto bene a un ascolto del disco ogni due anni e mezzo perché ok essere fanatici di musica estrema ma non è neanche necessario farsi sfiancare così dalla vita. Il momento in cui ti rendi conto che la musica che riascolti più spesso è spesso peggio della musica che non riascolti mai è uno dei momenti fondamentali della crescita di un ascoltatore, e se non vi è mai capitato provate a immaginare a quanti soldi può guadagnare su Spotify un gruppo noise con una sola traccia di un’ora e qualcosa. PS: se non avete mai sentito parlare di loro, gli Shearling sono un gruppo californiano nato dalle ceneri degli Sprain (di cui qualche volta ho parlato in giro per i posti in cui scrivo ma non ricordo esattamente dove, sai mai).
THE AUSTERITY PROGRAM – BIBLE SONGS 2 è il capitolo 2 di una serie che era iniziata sei o sette anni fa. L’idea è stupidissima: prendono un passo della bibbia (libro X, capitolo X, vesetti X-Y) e lo usano come testo di un classico pezzo alla Austerity Program, che se non conoscete dovete immaginarvi come i Big Black in un mondo ancora più nichilista e malmesso (basso, chitarra, drum machine, urla insensate, gavettoni di nonsense). Lungo il disco succede la stessa cosa che succede ogni volta coi dischi degli Austerity Program: stai lì per qualche minuto a chiederti come mai ti stia a cuore un gruppo così pacchiano e derivativo, poi a un certo punto vieni sopraffatto dalla violenza e ti metti a sbrodolare.
THE EX – IF YOUR MIRROR BREAKS nei giorni scorsi ho letto un’intervista ai Messthetics su Quietus in cui Brendan Canty dice “certa gente continua a contattarmi e dirmi che noi avremmo il potere di sconfiggere Trump, sono tutti tipo ‘sai, sarebbe davvero il momento ideale per il ritorno dei Fugazi’. Io non ho davvero idea di cosa pensino che siamo in grado di fare in merito, ma mi fa comunque piacere sapere che la gente s’immagini che abbiamo dei superpoteri o qualcosa del genere”. È l’illusione in cui vivono gli appassionati di certa musica, nel senso, di tutta la musica; c’è la musica che fa parte del presente, e quella non cambia nulla, e c’è la musica di ieri o di domani, che potrebbe anche cambiare le cose. Poi ci si rende conto che passato e futuro sono dei presenti spostati nel tempo e viene un po’ da chiedersi se per caso non sia meglio farsi la tessera di un partito o di un sindacato. Tutti i dischi e i gruppi che preferisco hanno in una qualche misura a che fare con quest’idea di lottare per la sopravvivenza in un mondo in cui le illusioni sulla musica si sono infrante e il mio disco dell’anno è quello dei The Ex, come ogni anno in cui esce un disco dei The Ex.
THE YOUNG MOTHERS – BETTER IF YOU LET IT gli Young Mothers sono la band di Ingebrigt Håker Flaten, cioè il bassista dei The Thing. L’impasto che cucinano a questo giro ha una base di improvvisazione fortissima ma meno a che fare con il freejazz e più a che fare con un certo hip hop e una certa mentalità downtempo Madlib/GillesPeterson. Poi ovviamente parliamo di un disco degli Young Mothers e quindi non di roba che ti puoi ascoltare serenamente mentre sorseggi un cocktail fruttato: a un certo punto la violenza e l’arroganza spicciola prendono il sopravvento e ti ritrovi tirato in mezzo a una rissa nel ruolo del povero innocente pestato a sangue.
TUNDE ADEBIMPE – THEE BLACK BOLTZ la prima volta che l’ho messo su ho sinceramente pensato che avrebbe spaccato tutto quel che c’era da spaccare. Tunde Adebimpe sarebbe il tizio dei TV On The Radio, qui alla prima vera uscita per conto suo con un disco di una sobrietà che a volte ti fa pensare sia stato messo giù con la mano sinistra durante la convalescenza per un polpaccio stirato durante una partita di padel, e a volte fa sorgere il sospetto che abbia trovato da qualche parte il segreto della musica pop e abbia deciso di condividerne una fetta col mondo. A confermare per l’ennesima volta la mia grande capacità di analisi del gusto musicale contemporaneo, il disco di Tunde Adebimpe è sparito dai radar un paio di giorni dopo essere uscito, ma tanto vale non preoccuparsi e continuare a suonarlo forte.
VIAGRA BOYS – VIAGR ABOYS a qualche mese di distanza dall’uscita viene quasi voglia di pensare che tutta la paccottiglia postpunk degli ultimi dieci anni sia servita a preparare il terreno per l’ultimo disco dei Viagra Boys, nel quale tutte le pretese di senso vengono lanciate ancora vive in una pentola d’acqua bollente come dei gamberoni ed escono fuori come la versione brasata di se stesse -forse il grande disco pop dell’anno? Accettiamo scommesse