(nota: la versione originale di questo articolo è uscita come episodio della mia rubrica sul numero di marzo di Rumore e riprende in parte argomenti che ho trattato in episodi precedenti della newsletter)
Il primo disco dei Belle and Sebastian si chiama Tigermilk. È un disco che per certi versi ha sconvolto il mondo del pop, o comunque ha sconvolto un certo mondo di pensare la musica pop, al punto che se uscisse oggi sarebbe -credo- ignorato o considerato un disco indiepop come altri cento che ne escono ogni settimana, per dire dell’impatto dei Belle and Sebastian su un certo modo di suonare la musica. Tigermilk è arrivato in commercio nel 1996, quando ancora i dischi li si comprava perlopiù al negozio di dischi, e perlopiù li si comprava. Nella mia città avresti potuto trovarlo in due negozi, se ti andava molto bene, e l’avresti pagato circa 35mila lire. Il CD aveva smesso da pochi anni di essere la novità futuristica del commercio della musica ed era diventato lo standard. Qualche anno prima il prezzo avrebbe potuto essere addirittura più alto. E forse in qualche città la concorrenza era un pochino più agguerrita e avresti potuto comprare lo stesso disco risparmiando tre o quattromila lire, ma non è importante.
(qualcuno potrebbe obiettare che il primo disco dei Belle and Sebastian ebbe una distribuzione molto limitata e fu If You’re Feeling Sinister, uscito lo stesso anno, ad arrivare per primo nei negozi di dischi, ma questo pezzo non sta davvero parlando dei Belle and Sebastian quindi per favore non rompetemi le palle)
Controllando qualche tabella su internet scopro che un litro di diesel, nel 1996, costava 1432 lire. Immagino che il dato, nudo e crudo, non dica nulla. Mettiamola in questi termini: in quell’anno avresti dovuto scegliere se comprare il primo CD degli ultrapromettenti Belle and Sebastian o -in alternativa- 24 litri e mezzo di gasolio. Poi sono arrivati l’Euro e la crisi del supporto fisico e qualche prezzo qua e là han dovuto aggiustarlo. Così, se oggi volessi comprare Late Developers, l’ultimo CD dei Belle and Sebastian (i quali, nel frattempo, le promesse le hanno mantenute tutte), spenderei una cifra che si aggira intorno ai 15-16 euro, pari a circa otto litri e mezzo di gasolio (per una copia sigillata di Tigermilk in nice price basta una tanica da 5 litri). Di questi tempi non si parla più di scala mobile, e l’inflazione segue storicamente dinamiche molto diverse a seconda della fattispecie delle merci. È un modo complicato per dire che c’è una ragione per cui oggi il diesel costa 1,9 euro al litro e i CD non costano 46 euro al pezzo. Ed è che la gente mette il gasolio nel serbatoio anche se costa due euro, mentre un CD a 15 euro rischia comunque di rimanere invenduto sugli scaffali dei pochi eroi che ancora si ostinano a venderli (e infatti il prezzo del vinile nuovo, che molti percepiscono ancora come un bene necessario, sta lentamente ma inesorabilmente slittando verso quella cifra).
A questo cambio di percezione hanno contribuito tante cose, successe sia nel mercato della musica e dei carburanti, che tutti sappiamo e consideriamo ovvie: il corso della storia, le nuove tecnologie, il cambiamento dei ruoli strategici di un bene e dell’altro. Rimane una certa potenza innata del dato nudo e crudo: i CD oggi (non) si vendono a un terzo del prezzo a cui si vendevano 27 anni fa. E dunque s’arriva alla domanda: quanto costa la musica? Quanto deve costare la musica? Di quale e quanta musica stiamo parlando?
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I giorni in cui scrivevo le prime bozze di questa cosa che state leggendo sono anche quelli in cui si stava andando a conformare, lentamente ma inesorabilmente, il calendario dei concerti estivi a cui avrei voluto prender parte. Ero piuttosto carico per una delle due date di Bjork, che adoro e non ho mai visto dal vivo, ma poi sono usciti i prezzi dell’evento (70 in piccionaia e via a salire, fino ai 170 del primo settore, già all’epoca “quasi esaurito”), e ho deciso mestamente di pisciare la data bolognese e lasciare il posto a sedere a qualcuno più dedito e meno povero di me. Da allora al momento in cui questa cosa finisce pubblicata sulla newsletter si sono accumulate diverse altre date di artisti che ho seriamente preso in considerazione prima di buttare un occhio al listino prezzi. Il quale è sempre di più, appunto, un vero e proprio listino. Su questa cosa nessuno batte ciglio, ma è un dettaglio significativo per il discorso che sto provando con scarsi risultati a mettere insieme. Una volta andavi al concerto, che so, ti andavi a vedere gli U2, e il biglietto degli U2 costava quarantamila lire, o quel che costava. Esibivi il tuo biglietto ai tornelli d’ingresso, il pastore tedesco ti sniffava il pacco e ti piazzavi nel punto che ti sembrava migliore per vedere il concerto. Ma evidentemente quel sistema era troppo semplice. A un certo punto sono iniziati a comparire i primi parterre, i primi pit, quelli col braccialettino del fan club o il prezzo maggiorato. Oggi per vedere un concerto in uno stadio devi pensare come se dovessi andare a vedere un’opera a teatro: ci sono i settori per i ricchi, quelli per gli straccioni e quattro-cinque soluzioni a metà del guado, verosimilmente riempite da ‘appassionati’ a un passo dal delirio che riescono a fare un ragionamento tra costi e benefici e scegliere il settore più conveniente a soddisfare le loro esigenze. Nei listini attuali peraltro sono spesso esibiti prezzi per non assistere all’evento, elencati sotto il bellissimo eufemismo “visibilità ridotta”: paghi tot euro per entrare nel posto e sederti in un posto dove il concerto non si vede, ma puoi ascoltare e fare i video col telefonino alla gente che ha scucito più soldi di te (così magari riusciamo a identificare alcuni facinorosi che nel resto della settimana hanno scritto tweet che auspicano il superalismo del capitalismo).
Quanto ti costa un concerto moderno in termini di carburante? Proviamo a fare due conti. Il tour di Homogenic, anno 1997, passò da Firenze. Il biglietto costava 50mila lire più diritti di prevendita, e ricordo un live report, uscito su Rumore, in cui la cantante venne NON recensita perché il concerto costava troppo (poteva essere il tour seguente, non ne sono certo). In ogni caso parliamo di circa 34 litri di gasolio dell’epoca. Facciamo 37 con il diritto di prevendita. Nel 2023, per un concerto di Bjork, puoi pagare una cifra pari a 90 litri di gasolio.
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(pausa scenica)
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Credo sia giusto tener conto di questa cifra, nuda e cruda, per diversi motivi. Il primo è che questo non è un problema della sola Bjork, che sarebbe risolvibile mandandola affanculo e limitandosi ad ascoltarla gratis. Il secondo è che non sono forte in matematica ma mi pare che comprare disco e concerto di Bjork 25 anni fa costasse 61 litri di diesel contro i 90 di oggi, e che il diesel è un affare abbastanza ingente da convincere alcuni paesi a invaderne altri. Il terzo è che nonostante questi concerti vadano comunque esauriti, una consistente fetta di addetti ai lavori continua a raccontare che l’economia della musica sia in una crisi nera. Per usare parole che vanno di moda nell’ultimo decennio, in certi casi è un’operazione di gaslighting, di manipolare il pensiero insistendo su dati parziali e fuori contesto. Il supporto fisico non guadagna come un tempo, si piange miseria su quello, si continua a rosicchiare la carne intorno all’osso di quelli che pagano la musica. Mi sono occupato della questione in un episodio passato della newsletter e mi spiace ripetermi, ma il mio sospetto è che quelli che pagano la musica siano una percentuale della popolazione occidentale educata a spendere in musica tutti i soldi che può spenderci, e che non sia fisicamente possibile spremerli più di quanto li si stia già spremendo. In questo senso la teoria (molto diffusa) secondo cui *Kendrick Lamar all’Arena fa sold out e quindi ha ragione lui* è una poderosa idiozia: i prezzi irragionevoli sono il gesto suicida di un settore in cui molti top player (che siano artisti o portali o promoter, in fondo, poco importa) sembrano semplicemente troppo ingordi per pensare al bene del comparto. Oppure, peggio ancora, troppo spaventati: percepiscono il presente del settore come l’ultimo giro di una giostra che sta per collassare su se stessa con tutte le persone a bordo, e sperano di riuscire a coprirsi di bardature e gommapiuma per riuscire a sopravvivere il giorno in cui succederà. Alcuni di loro sono semi-monopolisti che hanno già abusato della loro posizione dominante nel loro mercato di riferimento, e oggi decidono di farsi la guerra collassando in un unico mercato di grandi eventi nel quale uno spettatore senza la disponibilità economica del figlio di un primario di chirurgia può giusto entrare per una sera a dare una sbirciata (meglio se a visibilità ridotta).
-un inciso su questo: Kendrick Lamar all’Arena sta fra i 100 e i 250 euro. Continuo a ricordare con un certo affetto articoli di nemmeno cinque anni fa che denunciavano l’arretratezza culturale dell’Italia, perché una data estiva di Kendrick Lamar non avrebbe generato abbastanza soldi da coprire il suo cachet. Immagino che stare al passo con la cultura occidentale non possa essere a buon mercato-
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Naturalmente, se guardiamo ad altri parametri, il settore musica sembra davvero a un passo dal baratro. Stando fuori dal giro degli artisti a cui è deputato il compito di disegnare il nostro immaginario ci troviamo sempre più spesso a tour che perdono soldi o che vengono cancellati prima di iniziare per questioni di pura matematica -perché il prezzo del gasolio aumenta anche per i gruppi che girano, perché la gente a certi concerti non è più così tanta, perché le condizioni oggettive di un gruppo che scende dal furgone ed entra nel posto dove deve suonare sono peggiori oggi di quanto lo fossero allora. Sarebbe da stronzi negare l’esistenza di situazioni come queste, che infatti di solito vengono ampiamente citate come ragione dell’aumento dei prezzi dei biglietti, come se un biglietto a 170 euro fosse conseguenza e non, molto più ragionevolmente, causa della povertà del comparto. C’è da capire, in altre parole, su quali clienti sta investendo l’industria dei grandi concerti, su quanti concerti si possano permettere questi clienti ogni anno, a quanto ammonti l’ISEE dei loro genitori e se abbia davvero senso blandirli in un’ottica di lungo periodo. È una domanda retorica, sia chiaro: ogni settore economico che può permetterselo, in questo momento, sta spingendo per accaparrarsi i favori dei privilegiati e lasciare a bocca asciutta le classi medio-basse, una cosa che avrà effetti molto brutti nel lungo periodo (quantomeno quello di separare i musicisti in due classi che si guarderanno in cagnesco). Ammetto di essere infastidito dalla piega che le cose hanno preso e che ormai, a metà stagione, guardo i listini prezzi dei concerti che vengono annunciati solo per migliorare un pochino le mie statistiche al torneo di bestemmie della mia parrocchia. Poi mi passa e penso che coi soldi risparmiati con un solo concerto di Bjork, e magari un venditore compiacente, potrei ricomprarmi tutta la discografia dei Belle and Sebastian. Che culo.