Ieri sera, quando è uscita la notizia, l’account del Corriere ha twittato che “È morto Steve Albini, produttore di Nirvana, dedicò un 45 giri a Mussolini.” Ho capito subito che non mi dava nessun fastidio leggere il tweet: non è stata la prima volta in cui qualcuno ha frainteso qualcosa che Steve Albini aveva detto o fatto, e non sarà l’ultima. Ma più in generale, è una questione che ha a che fare con la natura dei lutti e dell’essere fan di musica.
La natura dei lutti: quando è morto mio fratello una parte di me ha pensato che, nello schifo e nel brutto di quelle ore, almeno avrei potuto imparare qualcosa. Le persone si raccolgono intorno alla famiglia del defunto, visitano la camera mortuaria, vengono a dirti di essere forte, ti raccontano le loro storie su quel tizio che sta lì steso davanti a voi. L’aspettativa sociale in questi eventi mondani non è molto diversa dai tempi in cui ti mandavano in casa le prefiche. La famiglia è stretta intorno al capezzale e, senza dirlo, tutti si aspettano di incontrare un gruppo di persone devastate a cui offrire sostegno. Insomma, a un certo punto me ne torno davanti alla tomba di mio fratello e c’è mia mamma abbracciata con una donna, più o meno coetanea, che piange e si dispera e le dice di esser forte che passerà e che quando vuole la può chiamare e tutto il resto. A guardarla così da fuori è messa molto peggio di com’è messa mia mamma. A dire il vero non è la prima volta che è successo in queste ore, perché mia mamma è un tipo molto composto, ma la cosa curiosa è che questa donna io non l’ho mai vista in vita mia. Quando se n’è andata chiedo chi è -a quanto pare, era una tizia con cui aveva parlato un paio di volte a un corso di acquagym o qualcosa del genere. E lì ho pensato ovviamente che insomma, ok la pantomima e tutto ma come cazzo ti viene in mente di mettere in piedi uno show del genere, con una persona che conosci a malapena e che ha appena perso suo figlio? E ci ho pensato parecchio per almeno un giorno, e poi c’è stato il funerale di mio fratello in chiesa, e questa tizia era fuori ad assistere e a un certo punto è stata male e hanno dovuto portarla via in ambulanza. Così, insomma, ecco una delle cose che ho imparato col mio primo lutto major: la tua inclinazione a piangere e soffrire non dipende da quanto bene hai voluto a quella persona ma solo a quanto sei umanamente predisposto a piangere e soffrire.
Essere fan di musica: quando giri per una fiera di paese o un centro commerciale o un’altra qualunque situazione di assoluta casualità, i fan di musica li riconosci al volo. Possono essere completamente privi di segni di riconoscimento (magliette cappellini tatuaggi eccetera) ma hanno qualcosa nel portamento. Sapersi riconoscere non ha nessuna utilità operativa. Le persone appassionate di musica possono essere belle o brutte persone, possono essere piacevoli o spiacevoli in una chiacchierata, eccetera. L’unica cosa che è sicura, non avrai bisogno di spiegar loro la passione per la musica. Con gli altri ci sono cose che è difficile far capire. Ogni tanto ti capita di rimanere incastrato in una conversazione con una persona che cerca di stimolarti e ti parla di quella volta che ha visto i Led Zeppelin o di quel suo zio che ha la discografia completa dei Tangerine Dream, e tu non riesci a far capire che 1 non è davvero importante per te parlare di musica e 2 che se vogliamo farlo devi essere d’accordo almeno sulla base, su un terreno comune dove dobbiamo trovarci. E quel terreno comune è legato al fatto che la musica ci possiede, che una parte della nostra umanità dipende da quello che stiamo ascoltando, che il suono di un tamburo accende la nostra vita in un modo che un non-fanatico di musica non riuscirà mai a capire. Non è un merito e non è un demerito, è semplicemente una cosa che abbiamo.
Molti si lamentano che oggi la scrittura sia diventata troppo ombelicale e autoriferita, almeno per quanto riguarda quelli che scrivono di musica. Vorresti leggere qualcosa sugli Shellac, il miglior disco prodotto da Steve Albini, eccetera. E invece leggi solo gente che dice io, io, io. Non sono d’accordo, ovviamente. Le persone che leggono i nostri articoli sono persone con una conoscenza musicale pari o superiore alla nostra. Non cercano conoscenza, cercano condivisione. L’unica cosa sensata che possiamo mettere dentro alle cose che scriviamo è noi stessi. Tutto il resto è roba che possiamo trovare agilmente online o che importa poco. Così, in questo momento, scrivo immaginandomi una persona dall’altra parte dello schermo che si sente più o meno come mi sento io. Sto iniziando pian piano a realizzare che Steve Albini non c’è più, mi monta il magone, penso che rimarrò comunque in controllo delle mie emozioni, e questo è più o meno quanto. Così, insomma, non sono preoccupato della parte informativa, e men che meno mi interessa se i lettori del Corriere possano pensare che Steve Albini fosse un fascista (a Steve Albini non sarebbe fregato un cazzo). Men che meno mi preoccupa di far capire come si possa trovare inaccettabile che da qui in poi non ci sarà più nessun disco che suona in quel modo, e che un giorno Nina Nastasia vorrà registrare altre canzoni e non ci sarà lui dietro al vetro, e che non potremo più trovarci in qualche locale di Bologna a veder suonare un gruppo che abbiamo già visto suonare una dozzina di volte. Sapere che dall’altra parte dello schermo c’è una persona che queste cose le capisce è l’unica cosa che mi importa in questo momento, ed è davvero l’unica ragione per cui continuiamo a scrivere e a leggere queste cose qui.