Mi perdonerà Damir Ivic se inizio citando un suo pezzo uscito la scorsa settimana su Soundwall.
“E sapete che c’è? Se Madonna viene venduta a 345 euro per biglietto non è (tanto) colpa di Madonna, di Live Nation, di Ticketmaster, di quanto la signora Ciccone spende settimanalmente in botox e giardineri, di chi o cosa volete voi. No. La colpa in primis sarà di tutte quelle persone che acquisteranno quel biglietto a quel prezzo lì e, in generale, di tutti coloro che faranno registrare il sold out alla data milanese di Madonna, quella coi prezzi che avete potuto vedere lì sopra. E di tutti i concerti sovraprezzati che si susseguono ormai costantemente. Traslandoci al clubbing, la colpa è comunque di chi accetta di pagare millini in euro per i tavoli, centinaia di euro per ingressi supposti VIP (anche se poi magari finisci dietro, negli sgabuzzini dove depositano i vuoti di bottiglia, e se conoscete Ibiza avete già capito di che parliamo), e non ha nulla da ridire quando vede che certe serate si trasformano in una parata di famosi ed abbienti che si divertono solo a favore di Instagram e di hashtag, e misurano gli artisti solo a seconda di quanti follower hanno e di quanto gli fa fare bella figura taggarli.”
Il contesto del quote è un articolo in cui si parla del caro-biglietti, partendo dal clamoroso esempio delle ultime date di Madonna. Ivic lo inserisce in un discorso che è effettivamente molto interessante, e molto condivisibile, vale a dire quello di uno slittamento della percezione della musica come bene di consumo. Semplificando molto la questione, l’esistenza di concerti a questi prezzi e di VIP-package a prezzi da usurai fa sì che la musica smetta pian piano di essere una sola, e inizi a crearsi un filone parallelo, una specie di polo del lusso della musica, una clientela di cazzari danarosi a cui certi artisti (le popstar o i grandi dj ad esempio) possono rivolgersi, scaricando la gente comune giù per il cestino senza temere che questo possa rivolgersi contro di loro. È un discorso che ha fatto anche, recentemente, Giulia Cavaliere su Facebook, partendo dallo stesso argomento ma con una prospettiva uguale e contraria: se si sta creando un conflitto di classe nella musica live, dobbiamo ragionare partendo da un’ottica di classe.
(Un passo indietro: se non conoscete la questione-Madonna, è presto detto: la cantante ha annunciato una data milanese a novembre, per un tour che celebra i 40 anni d’attività, con biglietti che vanno dai 46 euro se accettate di esser messi in una zona dove non si vede il palco a oltre 300 per i posti migliori. Molta gente è insorta sui social, molta altra gente si è affrettata a comprare i biglietti. I secondi si sono rivelati molto più dei primi, e Madonna è stata costretta ad annunciare un’altra data)
Nelle cose scritte da Ivic e Cavaliere c’è tanta roba con cui concordo, dicevo. C’è anche tanta roba con cui non sono d’accordo, e che mi ha dato molto da riflettere negli ultimi giorni e che tu, essendoti iscritt* a questa newsletter, sarai purtroppo costrett* a sorbirti da qui in poi. Il punto principale è una cosa su cui molte delle robe che penso sulla musica si concentrano negli ultimi anni, per un motivo o per l’altro: il ruolo che occupa nel mercato della musica chi ascolta la musica.
Più esattamente, per qualche motivo l’industria musicale costruisce gran parte della sua ragion d’essere inculcando agli ascoltatori l’idea di essere un branco di taccagni, scrocconi e malfattori. L’idea per qualche motivo ha accompagnato ogni fase della nostra vita di ascoltatori, o perlomeno della mia. Il tutto si è svolto in maniera parallela all’evolversi della tecnologia, fin dai tempi della campagna HOME TAPING IS KILLING MUSIC (il logo della campagna originale era in piena sintonia con la delicatezza e l’understatement delle campagne di sensibilizzazione dell’epoca, tutte ispirate al libro dell’Apocalisse di San Giovanni Apostolo)
La cosa ai tempi sembrava avere un senso. Per la prima volta gli ascoltatori erano venuti in possesso di tecnologie che permettevano di copiare in maniera artigianale i dischi senza doverli comprare, e qualcuno lo avrebbe fatto a dispetto di tutte le minacce. La campagna fu un grosso successo culturale e un grosso insuccesso commerciale, anche perché si accompagnò ai primi pionieristici tentativi di correre ai ripari e all’introduzione di un nuovo concetto commerciale: pompare i prezzi al dettaglio quanto più possibile. Era un concetto piuttosto innovativo e geniale, se la guardate dal punto di vista del marketing: si sarebbe usata una visione creativa del concetto di economia di scala, e la si sarebbe utilizzata per convincere i non-pirati a pagare i costi della pirateria, in modo che non ricadessero sull’industria. La cosa funzionò, e sortì effetti benefici a catena: grazie al vituperato home taping gli artisti godettero di maggior esposizione, e questa esposizione aiutò a vendere biglietti di concerti e/o dischi a prezzo maggiorato. L’arrivo del CD abbatté molti costi di produzione e permise, grazie ai vantaggi tecnologici, un rialzo dei prezzi al dettaglio. Per quasi dieci anni l’industria poté contare su un prodotto di primissima categoria: costo di produzione ridotto all’osso, diffusione sterminata, vantaggi evidenti di utilizzo (potevi doppiare un CD su nastro, ma la comodità del CD era impareggiabile, o comunque ti invitava a spendere i soldi in più) e sostanziale inaccessibilità della tecnologia ai pirati. Ma l’industria non ha mai smesso di menarla ai suoi clienti, e il fantasma della pirateria come portatrice di scenari apocalittici non è mai davvero passato di moda. Era una visione lungimirante: erano loro i primi a sapere che l’imporsi del formato-CD avrebbe garantito l’imporsi della tecnologia-CD, e conveniva non mettere i gonfaloni nel ripostiglio. Da ascoltatore di musica cresciuto negli anni novanta, e perlopiù a cassette, ero il bersaglio preferito di quelle campagne. Si diede battaglia ai negozi che noleggiavano CD, per evitare che la gente si facesse troppi giri sulla giostra a poco prezzo. Si dava battaglia ai bagarini, che erano riusciti a sfruttare le falle del sistema-concerti a proprio vantaggio (questo succedeva prima che il bagarinaggio venisse rinominato “secondary ticketing”). Si dava battaglia ai banchetti con le t-shirt fuori dagli stadi, che vendevano lo stesso prodotto alla metà del prezzo chiesto dagli artisti dentro agli stadi (sarà pure stato di qualità inferiore, ma non così inferiore). Dicevo, un comportamento che è sempre sembrato geniale. Si spendevano tanti soldi per capire quali fossero i principali punti in cui i comportamenti dell’industria sarebbero stati attaccabili, e si spendevano ancora più soldi per demonizzare chi avrebbe attaccato questi sistemi. L’avvento del CDR e l’esplosione del file sharing furono effettivamente un’apocalisse: la diffusione della musica non aveva nemmeno più bisogno di un rapporto di amicizia tra chi la passava e chi la riceveva. Demonizzati per due decenni da campagne che li dipingevano come taccagni scrocconi e malfattori, lo diventammo. E già che c’eravamo, decidemmo di imporre un nostro star system parallelo, fatto di musica migliore e più meritevole di quella che veniva spacciata dal sistema istituzionale di promozione musicale.
Poi, ovviamente, ci siamo dovuti sobbarcare tutti i costi di questa rivolta. Qualche azienda è finita gambe all’aria, qualche gruppo grosso s’è visto peggiorare le condizioni contrattuali; quasi tutti erano comunque in via d’archiviazione per ragioni anagrafiche. L’offerta di concerti è aumentata, ma la condivisione massiccia di musica aveva fatto abbastanza per aumentare la domanda e far sì che le serate non andassero deserte. Qualcuno è stato messo in croce dalle complicazioni dell’irrigidirsi del sistema di persecuzioni legali messo in piedi per provare a scodare il file sharing. Nel giro di pochissimo tempo i grandi portali hanno provato a vendere un euro al pezzo gli stessi mp3 che sui peer-to-peer andavano gratis. Avrebbero potuto venderli a 10 centesimi, tirar su un cappello di soldi e smettere di menarla con la pirateria, ma il mercato fisico non avrebbe più avuto alcuna ragion d’essere -in uno scenario d’incertezza hanno preferito non battere ciglio e lasciare che i negozi di mp3 venissero giù, in attesa che il mercato si conformasse ai loro comodi. Nel frattempo, ovviamente, hanno continuato a massacrare i loro clienti con campagne per colpevolizzare la condivisione di musica da pari a pari. NON RUBERESTI MAI UN’AUTO.
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In questo contesto nessuno dei grossi player dell’industria sembra mai essersi domandato davvero chi fossero questi pirati. Chi erano? Che vita facevano? Come utilizzavano i loro soldi? Noi taccagni scrocconi e malfattori non abbiamo mai davvero rivelato il nostro segreto, forse per una tendenza alla glacialità che ha un po’ a che fare con certe cose di Jane Austen. Bastava guardarci passeggiare per strada per capire dove fossero andati a finire quei soldi. Niente vestiti di pregio, niente auto di pregio, niente droghe di pregio. Abbiamo speso tutti i soldi che avevamo, letteralmente, per comprare musica. Concerti, dischi, magliette di gruppi. Quante persone conoscete, tra quelle che si sono riempite una dozzina di hard drive di album, che non hanno mai speso un soldo in dischi originali e concerti? Due o tre, ipotizzo. Ipotizzo che siano persone che non avrebbero comunque speso un soldo in dischi. Ipotizzo che siano persone con cui non uscite troppo volentieri. La risposta alla domanda che chiudeva il paragrafo precedente: io a rubare un’auto ci ho pensato seriamente, quando mi è capitato di doverla cambiare, e vedendo in che condizioni la musica aveva ridotto il mio conto in banca. Certo, conoscere tanta musica ha reso difficile per me considerare davvero l’idea di comprare dischi di Bon Jovi, ma non credo che Bon Jovi se la passi poi così male.
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Gli ultimi anni non sono una grandissima sorpresa per noi. Da fanatici di musica siamo abituati a sentirci trattati come taccagni, scrocconi e malfattori. Non è mai stato un grosso problema, perché la musica ci serve e abbiamo imparato ad arrangiarci. Oggi siamo al punto in cui sono gli artisti stessi, o la loro etichetta, a lamentarsi del fatto che i consumatori ascoltano la musica su servizi di streaming legali in cui sono stati gli artisti stessi, o la loro etichetta, a caricare la loro musica. Siamo al punto in cui il problema del secondary ticketing (che tre o quattro anni fa sembrava destinato a radere al suolo l’industria mondiale dei concerti a forza di inchieste delle Iene) è stato risolto applicando prezzi da bagarini sui canali di vendita ufficiali, e lasciando gli artisti di fascia media a lamentarsi del fatto che la ruota è girata e non si possono più finire i tour in attivo. Per carità, spiace molto più a me che alle persone che scrivono quegli articoli. Ma non possiamo manco essere noi a sobbarcarci i costi di una bolla che sta continuando a scoppiare da 40 anni, e vi assicuro che non è per mancanza di volontà o di impegno: è perché non abbiamo più soldi. E insomma non credo che abbia molto senso guardare ai portafogli o alla buona fede di chi ha deciso di sborsare 300 euro per vedere Madonna, a meno di non dare per scontato che tra noi taccagni, scrocconi e malfattori ci sia qualche crumiro che contribuisce attivamente a sbilanciare la situazione. E personalmente mi sento sereno nell’affermare che, nel caso, c’è da guardare prima in altri posti.
(la presente non è stata riletta, nel caso perdonate gli errori)