recap 2022 #2: LA CRISI DI RIGETTO L’HANNO INVENTATA QUELLI DEL GAVISCON
L’idea è di fare una serie di pezzi celebrativi in cui provo a ricapitolare cos’è stato il 2022 per me: playlist, riflessioni, propositi e se riesco qualche insulto qui e là.
Il 2 ottobre è uscito sul Post un articolo intitolato “Il rigetto della musica in streaming”. Il sottotitolo: “L’insoddisfazione per cataloghi sterminati e algoritmi porta alcune persone a prediligere vecchi formati ed esperienze di fruizione più limitate e meno passive”. Curiosamente, l’articolo si apre citando dei dati IFPI che dicono il contrario: lo streaming in qualsiasi forma domina il mercato, gli utenti dei servizi in questione sono cresciuti del 51% solo nel 2020. Quindi cosa si intende per “alcune persone”? Sempre citando l’articolo: “è un fenomeno difficile da misurare con precisione ma comunque estremamente limitato, che definisce un approccio alla musica largamente minoritario rispetto a quelli più attuali e dominanti.” Poi il Post si dilunga a illustrare (aiutato da contributi e interviste) le ragioni di questo fenomeno estremamente limitato e largamente minoritario: la bulimia musicale, la spersonalizzazione dell’esperienza dell’ascolto, l’aggressività di certe piattaforme nel propinarci musica soprattutto sbagliata, la mancanza di un processo di scrematura organico ed efficace, e via di questo passo.
Leggere articoli del genere è relativamente normale anche in testate competenti e rigorose come appunto Il Post, ma non solo (l’articolo riprende peraltro un originale uscito sul Guardian). Ma tutte le volte che li leggo, mi viene da chiedermi se questo genere di articoli sarebbe anche solo pensato in merito a questioni analoghe di area non-musicale. Poniamo, ad esempio, che pochi giorni dopo le elezioni del settembre 2022 fosse uscito un articolo di approfondimento intitolato Il ritorno dell’antifascismo in Italia, pubblicato una settimana dopo il voto di settembre. Completo di interviste ad esperti, militanti, storici e via andare. Magari con la stessa puntualizzazione dentro al pezzo: “è un fenomeno difficile da misurare con precisione ma comunque estremamente limitato, che definisce un approccio alla musica largamente minoritario rispetto a quelli più attuali e dominanti. E anche questi non sembrano proprio sbracciarsi per andare a votare qualche forza di sinistra alle politiche, ma andiamo a vedere le ragioni di questo ritorno.” Più ci penso più mi sembra un articolo perfettamente sovrapponibile: il successo di questo neofascismo da operetta che va di moda adesso genera una tendenza uguale e contraria e un hype quasi inevitabile del suo esatto contrario. Ma in questo caso suppongo che l’articolo verrebbe probabilmente bloccato prima di andare in stampa: abbiamo davvero intenzione di impelagarci in un discorso del genere? Vogliamo davvero dare questo tipo di servizio di informazione ai nostri lettori? Siamo pronti a difenderci da un’eventuale tempesta di merda scatenata da qualche antifascista che non si è mai sentito isolato e fuori dal mondo come adesso? Eccetera, eccetera, eccetera.
Non vuol essere, ripeto, un processo ad una rivista o all’altra, anzi. Anche perché ce ne fossero, di Post e di Guardian. La questione secondo me è più l’approccio giornalistico, o più in generale la narrazione, attorno alla musica. Le ragioni per cui sulla musica ci si prende qualche licenza dalla religione dello spiegato bene sono tante. Ci sono quelle che riguardano la natura dell’argomento: vanta una tradizione giornalistica secolare, ma la musica non è una scienza. E su questo siamo tutti d’accordo. E poi c’è il fatto che, a dispetto della tradizione secolare, giornalisticamente la musica gioca ancora in un campionato di semi-amatori, e senza una vera e propria etica del mestiere a governare i detti e i non detti. Con un approccio molto più libero ed elastico rispetto a quello che succede per la politica, la cronaca e lo sport
(in effetti, se ci pensate, gli sbrocchi di Lele Adani quando segna l’Argentina ai Mondiali 2022, che nell’approccio ecumenico della TV nazionale sembrano l’apoteosi del trash, sembrano in realtà il paragrafo introduttivo della recensione di un disco avant-grind su una webzine metal italiana dei primi anni duemila)
Ma il motivo per cui questi articoli escono e ci piacciono così tanto, in realtà, è un altro. Questo tipo di narrazione solletica una visione del mondo che, pur non praticandola, accettiamo come giusta. Ovverosia: c’è qualcosa di marcio nel mercato dello streaming, qualcosa di profondamente scorretto. Questo ci porta in qualche modo a rifiutarlo e cercare, forse inconsciamente, di raccontare il mondo in una maniera diversa, magari attraverso l’esaltazione di piccole economie corporative. A questo contribuisce il fatto che l’ascoltatore musicale di una certa età (GenX e millennial, diciamo) si è generalmente speso decine di migliaia di euro in compact-disc che oggi valgono molto meno della polvere di roccia di certe scogliere in cui si accumula la merda di gabbiano (sul serio, è stata per molto tempo una delle basi della composizione di certi fertilizzanti, e il valore nutrizionale dei CD sbriciolati per i terreni è davvero piccolo). E l’idea che tutti siano felici e contenti di streammare come se non ci fosse un domani MA ANCHE a un passo dal ritorno alla purezza del disco-oggetto ci ha convinto che, in realtà, siamo seduti su una miniera d’oro, e quando succederà saremo felici come delle pasque, coscienti che i dischi degli Early Day Miners aspettano la loro occasione nello scaffale. La prossima domanda, a questo punto, è: davvero preferiamo cullare questa illusione? La vogliamo cullare fino al punto di volerci scientemente privare dei benefici che ci ha dato la musica odierna? O abbiamo semplicemente somatizzato questi benefici al punto da riuscire a vederne solo i costi? Oppure vogliamo solo, boh, raccontarlo e sperare che gli altri si prendano la sbatta al posto nostro?
Nell’episodio scorso manifestavo l’intenzione di pensare più spesso alle cose come stanno, ovverosia che questo sia un periodo pazzesco per la musica. Lo è sia nei termini di qualità che nei termini di come la consumiamo. Tre giorni fa ero in macchina con un amico, uno che a quanto ne so non ha mai comprato un disco in vita sua, e stava ascoltando Tyler The Creator in streaming. Per dirne una. È una possibilità di fronte alla quale il me adolescente si sarebbe messo a piangere dalla gioia: tutta la musica che vogliamo e la possibilità di scoprire musica che non sappiamo di volere, al prezzo (più o meno) di un CD per tre mesi di servizio. Ma anche, più in generale, il privilegio di esistere da appassionato di musica in un’epoca dove il modo di ascoltare la musica, e le potenzialità di questo ascoltare, stanno cambiando in un modo che non è mai stato così eccitante. Ma oggi, al me adolescente che si fomenta per questa cosa, dovrei spiegare che tutte queste possibilità ci hanno reso schiavi dell’algoritmo, o che così tanta scelta ci ha reso molto meno appassionati alla musica, o che il prezzo di queste comodità è il radicale ed innegabile impoverimento degli artisti. E nessuna di queste tre cose si avvicina manco lontanamente al vero (siamo a volte influenzati dall’algoritmo, siamo appassionati in un modo diverso, e alcuni artisti sono più poveri di quanto lo erano prima).
Questo ovviamente non significa che in realtà Daniel Ek sia una bella persona. Io personalmente lo intendo al contrario. Non ho un vero interesse economico in questa cosa, ma suppongo che abbiamo deciso che il futuro (o comunque il presente) della musica sia nello streaming, vadano risolti (con urgenza furia e magari qualche bel boicottaggio alla vecchia) i problemi dello streaming. Invocare forme alternative di produzione e distribuzione sembra un po’ come se per risolvere i problemi dell’industria automobilistica ci si attivasse per un ritorno all’equitazione. E anche qui: non credo che ammetterlo sia in qualche modo irrispettoso nei confronti degli operatori del settore, o che implichi di disconoscere il valore dell’equitazione o del disco fisico o la mancanza di rispetto verso maniscalchi e negozi di dischi (che sono, e continuano ad essere, i massimi depositari della bellezza nello spazio fisico intorno a noi e i luoghi dove ancora oggi preferiamo spendere i nostri danari).