Nota introduttiva
Tengo una pagina su Instagram che si chiama Il Basso Sfasciato, racconta di storie legate al rapporto tra immagini e musica (copertine, video, coreografie, foto eccetera). Ho una specie di tradizione con me stesso: in occasione di ogni compleanno della pagina racconto la storia di un’immagine particolare, mettendoci tutto lo spazio che serve. In questi giorni cade il secondo compleanno del Basso Sfasciato e ho deciso di raccontare per esteso la storia della copertina con cui ho inaugurato la pagina.
“E poi, tra l’altro, cosa cazzo vorrebbe dire ‘Slint’?”
(Scott Tennent)
Una delle peggiori esperienze a cui tutti prima o poi vanno incontro al volgere dell’età adulta è il primo ingresso negli uffici di un’impresa di pompe funebri. Quando sei ragazzino di solito sei dispensato dall’esperienza, gli adulti si sobbarcano il peso schiacciante della burocrazia e di certe questioni del tutto prive d’interesse e ti lasciano crogiolare in pace nel dolore o nella negazione o nella vodka, a seconda di quale sia il tuo modo di affrontare una perdita. Poi, a un certo punto, tocca a te. La persona dall’altra parte del banco ha ricevuto una formazione che ho sempre immaginato pazzesca, perché le persone con cui deve parlare sono, da poche ore ufficialmente in lutto, e possono manifestare una reazione quasi sempre imprevedibile (in uno spettro che va dalla gioia di essersi tolti dai coglioni il defunto al fermo proposito di tornare a casa e uccidersi a propria volta). La persona dall’altra parte del banco è abituata a sollevare aspetti pratici che gran parte delle persone in questo momento non hanno lo spazio mentale di considerare, ed è abituata a farlo con un tatto umano che presuppone un briciolo di partecipazione al dolore ma anche e soprattutto la distanza emotiva che ti rende la persona ideale a far sì che il funerale funzioni bene. Sta di fatto che in questi momenti ti trovi a dover decidere su una serie impressionante di questioni che, in una momento nel quale ti trovi a discutere le ragioni del cosmo, suonano davvero stupide. Esempi banali: devi scegliere di che colore deve essere la scritta nei cartelli da morto (fino a poco tempo fa erano tutti neri con una foto ma di recente per qualche motivo va un casino l’azzurro, che in effetti sui cartelli da morto sembra più elegante, e poi ovviamente ci sono gli occasionali layout esplosivi a sfondo colorato che non fanno parte del mio pianeta estetico ma, nondimeno, esistono); poi devi scegliere la forma e la cromatura dei pomelli nella cassa (comprese le bare che dopo il funerale verranno bruciate); il creativo della famiglia (presente) si sobbarca il compito di tirar fuori la frase da mettere dietro il ricordino, e ci sono tante altre inezie a cui pensare. E poi c’è la foto, ovvio.
Sulla foto del morto c’è una contesa molto più feroce di quanto si possa immaginare, forse proprio per via della natura di quello di cui si discute in un ufficio delle pompe funebri. Prima cosa: tutte le questioni sul tavolo saranno magicamente scomparse dopo il funerale. Non importa dove sarà celebrato il rito, non importa di che colore saranno i pomelli della cassa, non importa quali fiori verranno preparati da quale fiorista e a chi andranno i soldi delle donazioni né niente del genere. Le uniche cose che rimarranno saranno una lapide (sui marmisti faremo un altro episodio della newsletter), un posto al cimitero e una fotografia, una sola immagine che definirà quella persona agli occhi di tutti coloro che vorranno ricordarla. Fino a tempi molto recenti la scelta culturale sulle foto dei defunti era molto omogenea, anche perché di ogni essere umano giravano molte meno immagini: fotografia del viso, possibilmente scattata da un professionista, possibilmente negli ultimi mesi di vita del soggetto. Oggi si usano approcci diversi: la foto segnaletica resiste soprattutto nell’immaginario dei genitori settantenni, mentre i quarantenni di oggi tendono a preferire immagini più rivelatorie -il corpo intero, qualche indicazione sul carattere della persona. La persona defunta deve sorridere o essere seria? Il viso della persona defunta dev’essere ben riconoscibile o dev’essere il contesto a lasciar parlare la foto? Tutte le teorie possono essere validate da esempi empirici, che potete trovare passeggiando per qualsiasi cimitero. Ognuna ha un suo valore. Mio babbo ha una foto del busto, sorride felice, mancano meno di due mesi alla sua dipartita. Ho passato tre ore a lavorare su Photoshop per togliere il bavaglione che gli mettevano in ospizio, prima di mandarla all’agenzia. Nella foto sulla sua tomba il mio vecchio capo è in piedi sulla bici, affronta una salita, ha il casco e gli occhiali da sole e la tuta da ciclista ed è sostanzialmente irriconoscibile, e chiunque l’abbia conosciuto vi dirà che non c’è una foto al mondo più bella per ricordarlo).
La memoria delle persone che perdi tende ad assottigliarsi, non importa quanto bene hai voluto loro. La complessità di migliaia di episodi in cui le hai avute accanto, i comportamenti contraddittori, le incazzature e i giorni di normalità, è tutto destinato ad evaporare in un modo un po’ stupido, grottesco. Le poche testimonianze che rimangono di quella persona sono segnali casuali che utilizziamo spesso per ripescare quella complessità con un processo di induzione che le rende diverse da quelle che sono state. Così, ad esempio, può capitarci di passare davanti alle lapidi di qualche sconosciuto al cimitero e cercare di intuire che persona fosse in vita, quali fossero i suoi interessi o se fosse piacevole incontrarla al bar la mattina. Le foto più grottesche hanno un particolare effetto evocativo, in questo. Non è detto che sia evocativo di qualcosa realmente accaduto, ma la mente viaggia di più, ed è per questo che per i miei cari, se chiedete a me, preferisco un action shot, una foto dentro a un contesto e con qualche dettaglio. C’è un altro livello di analisi, se volete: in questi scatti la persona ritratta non sembra quasi mai immaginare che quella foto finirà sulla sua lapide.
Forse è ingeneroso pensare a queste cose guardando alla copertina di Spiderland. Le persone che compaiono in quella foto sono ancora in vita, oltre trent’anni dopo, e hanno fatto tantissima musica -anche bei dischi, anche capolavori. Ma per altri versi è inevitabile pensare alle tante affinità che quella copertina ha con tutto questo universo sepolcrale e con tutta questa idea del postumo e della memoria che in qualche modo risuona nel punk, in generale, e in quel disco in particolare.
“Will si era tuffato con la sua macchina, e in quel punto del lago non si toccava. La macchina fotografica che aveva portato non era automatica, e così stava cercando di regolarla in qualche modo per scattare una foto decente mentre cercava di non affogare. A un certo punto abbiamo iniziato a ridere. È per quello che abbiamo quelle facce.”
Siamo nella tarda estate del 1990 e gli Slint si sono imbarcati nelle registrazioni del loro secondo disco. Lo stanno mettendo insieme a Chicago assieme a Brian Paulson: la prima metà è stata registrata in un frenetico weekend di agosto, la seconda sarà messa giù ad ottobre. Due weekend in tutto. Intorno al gruppo l’aria è girata parecchio, soprattutto nell’area di Chicago, dove alcuni dei membri si sono trasferiti per studiare alla Northwestern. L’amicizia di Steve Albini ha contato tanto. Corey Rusk si è innamorato di Tweez e vuole far uscire su Touch&Go il disco successivo. Ha anche messo a budget qualche soldo per registrare, non tanti ma meglio di prima. C’è una strana aria intorno alla band, un briciolo di eccitazione che stona un pochino se contestualizzata in un biennio nel quale gli Slint sono esistiti solo a sprazzi e hanno suonato pochissime date dal vivo. Ma è comunque la stessa aria che anche i membri della band stanno respirando, e così inizia ad arrivare qualche esigenza in più. Tipo: abbiamo foto da mandare se qualcuno volesse scrivere un articolo su di noi? Mica tanto.
Così hanno provato a farne qualcuna. Tutti seduti su un divano, ad esempio, o qualche scatto in giro per le strade della nativa Louisville. Non funzionano. Poi a Brian McMahan, all’improvviso, viene in mente la cava. The quarry. È una miniera abbandonata in una cittadina che si chiama Utica, qualche decina di chilometri da Chicago. Ci vanno parecchi ragazzi del giro punk cittadino per farsi due tuffi. C’è da scavalcare, ovviamente, e bisogna stare attenti a non farsi beccare. Qualcuno di loro era stato già portato alla centrale di polizia. Da Louisville sono tre ore e passa di macchina, ma se butta male ti sei fatto un tuffo. Così, un bel giorno di sole, i quattro ragazzi sono in macchina. Si sono portati dietro un amico. È l’unica persona, tra quelle che conoscono, a saper usare una macchina fotografica. Curiosamente è la persona che compare nella copertina del loro primo disco: suo padre l’aveva fotografato con un casco da pilota all’interno della sua auto, gli Slint avevano visto la foto e avevano chiesto di usarla. Si chiama Will Oldham.
Niente poliziotti, quel giorno. Il sole della tarda estate splende sul lago e i quattro si buttano in acqua. Oldham inizia a scattare. Poi si tuffa anche lui, e non è un buon nuotatore, e sul lago non si tocca, così deve provare a stare a galla mentre imposta la luce e il fuoco e tutto il resto. A un certo punto forse è impossibile non mettersi a ridere, e Will intanto continua a scattare foto. Britt Walford è un po’ avanti, McMahan sta dietro, a sinistra Todd Brashear, a destra David Pajo. Quattro cretini a bagno.
La cronologia intorno agli Slint ha già da tempo iniziato ad accartocciarsi. Dall’uscita di Tweez a quel tuffo nel lago è passato appena un anno, ma il gruppo che si è tuffato nel lago non è lo stesso che ha registrato il disco. La cosa va molto più in profondità di un semplice cambio di bassista. Il primo disco degli Slint era stato registrato nel 1987 e tenuto in un cassetto per due anni, e già allora il gruppo che era finito in sala di registrazione era fondamentalmente diverso da quello che aveva scritto le canzoni. I pezzi erano farina del sacco di Britt Walford e David Pajo, compagni nei Maurice e lasciati soli allo scioglimento della band. L’entrata nel gruppo di McMahan degli Squirrel Bait, amico d’infanzia di Walford e anche lui ex-Maurice, ha cambiato radicalmente la prospettiva. McMahan è diventato forse la testa più influente della band, un musicista il cui carattere analitico e perfezionista esercita un’influenza i compagni di gruppo in maniera decisiva. I frutti del cambiamento sarebbero già visibili in un EP di due pezzi, registrato dal solito Albini ancora prima dell’uscita di Tweez, ma che purtroppo rimarrà inedito per cinque anni. Ma nelle session con Brian Paulson il gruppo è finalmente in grado di dar mostra del suo presente, e magari qualche squarcio di futuro. Le strutture si sono fatte molto più complesse, la band usa tempi insoliti, suona spesso senza distorsione, e si permette cose che un gruppo punk del periodo non può nemmeno immaginare.
Improvvisazioni, tanto per dire. Nel momento in cui il gruppo entra in studio, Brian McMahan non ha provato un testo. Tutto viene fuori nella foga del momento. È un’esperienza provante. Nel secondo weekend McMahan è visibilmente nervoso, a volte sembra quasi disperato. Gli altri membri della band non sono informati della sua condizione: l’ansia e la depressione hanno iniziato a mangiarselo. I racconti sulle session sono diversi a seconda di chi ne parli, e quando. Una leggenda piuttosto accreditata vuole che l’ultima traccia del disco, Good Morning Captain, sia anche l’ultima canzone a cui lavorano. Brian urla I miss you, l’ultima riga del testo. Esce dalla cabina, si chiude in bagno a piangere. Quando esce dice agli altri ‘non sto bene’. Il giorno successivo entra in una struttura psichiatrica per curarsi. All’uscita dalla clinica ha maturato la decisione di uscire dagli Slint, che si scioglieranno seduta stante. Il loro secondo disco è pronto, ma uscirà postumo.
È una versione buona come tutte le altre, aggiunge un po’ di romanticismo.
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La copertina però c’è. Will Oldham ha sviluppato le foto della gita e le ha portate al gruppo. È lo stesso McMahan a decidere seduta stante. Vede quella foto in cui sorridono a pelo d’acqua. Il bianco e nero della pellicola e l’esposizione di Oldham hanno cancellato i segni del meteo di quella giornata. Sono rimasti i sorrisi e i riflessi della luce nell’acqua: sarà la copertina del disco. Uno se l’immagina come la volta in cui, mentre il bus sta passando il confine con il Canada, Joe Strummer prende in mano una foto di Paul Simonon che sfascia il basso e dice che quella sarà la copertina di London Calling. Ci sono tante cose a legare le due foto. Sono entrambe mosse, tanto per cominciare, scattate in una situazione molto precaria. E sono in bianco e nero, ovviamente. E poi c’è la scelta di mettere una foto dei musicisti nella copertina di un disco punk, che non è più così rivoluzionaria ma nemmeno la normalità.
La scelta di chiudere la foto in un letterbox, le bande nere sopra e sotto come quando passano un film in TV, pare essere in omaggio a Teenage Head dei Flamin’ Groovies. Il design della copertina è farina del sacco di Todd Brashear. Mette la foto di un ragno sul retro, la scaletta dei titoli scritta a mano e tre informazioni di numero sul disco: i credit, le date di registrazione e una bizzarra frase: “interested female vocalists write 1864 douglas blvd. louisville, ky. 40205”. È l’indirizzo di casa di Britt Walford. Il titolo del disco è Spiderland.
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La frase sul retro in realtà è la testimonianza di una fine un po’ diversa da quella della leggenda accreditata di cui sopra. Gli Slint continueranno a esistere anche dopo la fine delle session di Spiderland, stanno provando ossessivamente e hanno preso una pausa dagli studi. Hanno persino ricominciato a scrivere, e si stanno già muovendo: McMahan non è a suo agio davanti al microfono e forse è una buona idea provare con una cantante donna, da cui l’indicazione nel disco. Suoneranno il loro ultimo concerto a Evanston, nel novembre del 1990. Un pomeriggio di due settimane dopo, quando il gruppo si riunisce per provare, McMahan comunica la sua volontà di smettere -anche qui, le ragioni sono diverse a seconda di chi racconta la storia. Forse non ci sono prospettive nella scena musicale, forse i problemi di ansia e depressione non lo mettono in condizione di continuare o magari la benzina è finita. Sta di fatto che gli Slint non supereranno il 1990. Intorno a quello che da questo momento in poi è il loro testamento discografico inizia a generarsi un clima piuttosto strano. E poche settimane dopo Touch&Go sarà messa di fronte a una scelta tutt’altro che facile: pubblicare l’ultimo disco di una band che non può andare in giro a promuoverlo, o infilarlo da qualche parte e mettere a bilancio la perdita dei dollari spesi fino a lì. In realtà la scelta è relativamente facilitata da un aspetto non proprio trascurabile: Spiderland è un disco grandioso. Tutti quelli che posano le orecchie sul disco sono concordi, e il più infoiato di tutti è proprio Corey Rusk, che in anni successivi avrà modo di definirlo il disco più bello mai pubblicato dalla sua etichetta.
(e fidati se ti dico che è una bella guerra.)
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“Alla fine se uno ci pensa il punk è sempre stato postumo. Del punk fu dichiarata la morte molto prima che ne fosse ufficialmente certificata la nascita, e oggi si parla di “punk” solo nella misura in cui si ha bisogno di sporcare i contorni di una certa mentalità piccolo-borghese, per renderla più spigolosa e finto-incompromissoria -nel fashion, ad esempio, o in certe forme adulte del graphic design o in un certo mainstream musicale; nella sua forma più pura ha cantato l’impotenza e il già successo e la possibilità di esistere solo costruendo una nicchia ai margini del sistema, coltivando orgogliosamente gli affari propri in quel pertugio e rimanendo a guardia per evitare che arrivassero a fregarsi le albicocche o -peggio ancora- venissero a comprarle a peso d’oro.”
(autocitazione)
Così Spiderland fa capolino nei negozi di dischi, in un giorno qualunque del marzo 1991. Nessuno ha smesso di respirare nell’attesa. In un’epoca nella quale “emocore” è ancora un’etichetta allo stato embrionale, e che celebra la fragilità più che la nostalgia, il disco ha in copertina una foto di quattro ragazzi che ridono mentre stanno nuotando in un lago. E in un qualche modo sembra davvero la foto su una lapide.
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Se quella di Spiderland è una rivoluzione, non inizia con la presa Palazzo d’Inverno. L’uscita del disco, nel marzo del 1991, non è curata particolarmente da Touch&Go, per ovvi e spiegabili motivi. Al di fuori dei circoli di introdotti, soprattutto quelli che gravitano attorno a Chicago e Louisville, non si muove sostanzialmente nessuno. È ancora Steve Albini a metterci lo zampino, mettendo nero su bianco per il Melody Maker una recensione.
“Spiderland, sfortunatamente, è il canto del cigno per gli Slint, che hanno ceduto alle pressioni interne che prima o poi arrivano per tutti i gruppi. Ma è comunque un disco meraviglioso, e nessuno di coloro ancora in grado di commuoversi con il rock dovrebbe perderselo. Tra dieci anni sarà una pietra miliare e faticherete a trovarne una copia. Compratelo ora. (…)
Due gruppi soltanto hanno avuto per me il significato che hanno avuto gli Slint nel passato recente, e sono uno di loro, i Jesus Lizard, hanno realizzato un disco altrettanto bello. Viviamo in un’epoca di nani: dance music, tre varietà di merda hard rock per idioti, rap impostato su slogan infantile e ballate senza palle. Il mio istinto mi dice che questo periodo di magra durerà ancora per molto -forse fino a che i gruppi che gli Slint ispireranno avranno raggiunto la maturità. Fino ad allora suonate questo disco, e prendetevi a mazzate se non siete riusciti a vederli dal vivo. Tra dieci anni mentirete, da bravi succhiacazzi, e andrete a raccontare in giro che voi c’eravate.
Dieci fottutissime stelle.”
(sarà lo stesso Albini, trent’anni dopo, a parlare in maniera molto severa della leggerezza con cui utilizzava espressioni omofobe o sessiste)
Se quell’immagine dei ragazzi a bagno può essere vista come la foto ricordo di un morto, la recensione di Steve Albini suona come l’epigrafe dietro al ricordino. La sua celebrazione degli Slint come espressione di vitalità ha il retrogusto di un elogio funebre. Ma in quell’elogio inizia la vera storia di Spiderland. Gli Slint, ormai divisi, se ne accorgeranno qualche anno dopo. Sono impegnati in altri progetti musicali e in diverse città; di tanto in tanto Touch&Go spedisce un assegno ai ragazzi. Importi magari contenuti, ma arrivano. E c’è un’altra cosa: a casa di Britt Walford continuano ad arrivare lettere. Non ci sono cartelli in giro, non c’è file sharing. Non c’è altro che un bel passamano alla vecchia: esco di testa per il disco e lo passo ad un amico.
(per amore del gossip: una delle persone che hanno spedito una lettera a casa degli Slint si chiama Polly Jean Harvey)
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“Buona parte della gente che conosco che ha a che fare con la musica la sera del 4 marzo del 2005 era al TPO di Bologna, inclusi un sacco che scrivono in questo libro. Anche gente che ancora non conoscevo, e solo molto tempo dopo finisci per scoprire che ‘ah sì ma certo, c'ero anch'io, figurati’.”
(Federico Sardo, Non ti divertire troppo)
Gli Slint hanno smesso di esistere e non si sono più riformati per davvero. Ci hanno provato un paio di volte negli anni novanta ma non ha funzionato. I singoli membri della band hanno suonato in una quantità di progetti che a metterli insieme serve un’altra pagina e mezzo. Un bel paradosso è che nessuno dei quattro ragazzi fotografati in quel lago ha un nome conosciuto e rispettato quanto quello del ragazzo, all’epoca sconosciuto, che ha scattato la foto. Una versione nominale degli Slint, in formazione completa, ha regalato al mondo un paio di tour celebrativi negli anni duemila. Quando gli Slint arrivano a Bologna, quattordici anni dopo l’uscita di Spiderland, il mondo della musica è diverso da quello odierno. La reunion del gruppo indierock è passata nel giro di un lustro e mezzo da pratica estremamente sospetta ad assoluta normalità. Il mio ricordo della serata è abbastanza brutto, confuso e non così intenso. Come se la vibrazione fosse girata all’improvviso e stessimo tutti celebrando una rimpatriata che nessuno voleva per davvero, come se nessuno dei membri fosse davvero convinto di quello che stava facendo, e forse un affetto del genere poteva averli presi in contropiede. Oggi probabilmente mi godrei la serata in un modo diverso, tenderei ad alleggerire il giudizio e -più che verso il palco- guarderei in giro per la sala. La memoria del colpo d’occhio mette in luce un’evidenza empirica: in quella sala erano rappresentate in forze almeno tre generazioni di indierockers. C’erano quelli che c’erano anche ai tempi, o che avrebbero potuto esserci; c’erano quelli che hanno fatto tempo ad arrivare per ingrossare il culto della band negli anni del pre-internet; c’erano i ragazzini che li avevano trovati su Soulseek. La politica all ages dei concerti costringe il pubblico a un romanticismo da poco prezzo, abbastanza simile a quello delle curve ma con molte meno infiltrazioni di fascisti. Per ogni generazione Spiderland ha una forma uguale e diversa. Per i più vecchi magari era la recensione entusiasta di un disco introvabile, uscita su una rivista specializzata; per i miei coetanei è un nome scritto ogni sette righe negli articoli sui Tortoise o una cassetta finita a casa mia per buon cuore di un amico. Per i più giovani è lo screenshot di una lista di file scaricati a tarda notte o una retrospettiva puntuale sul gruppo pubblicata su una webzine.
“Federico dice come gli Slint ci ricordano che ‘tutti abbiamo qualcuno che ci manca’. A me, allora, manca una versione di me più vecchia di dieci/quindici anni che possa aver vissuto almeno un pezzo di Slint in presa diretta e che abbia una storia in proposito da raccontare.”
(Silvia Mascheroni, indieforbunnies.com)
Fa sempre impressione accorgersi che sono passati più anni da quel concerto a oggi di quanti ne fossero passati da Spiderland a quel concerto. Nel frattempo gli Slint hanno continuato a essere gli Slint, ovvero a non esserci, e a stendere la loro ombra su nuove generazioni di appassionati. Oggi chiunque abbia avuto o abbia un blando interesse per il rock indipendente conosce a menadito quella foto. Quando la vedi comparire sullo schermo senti quasi suonare l’arpeggio di Breadcrumb Trail.
A quanto pare Slint era il nome di un pesce. Britt Walford inventava i nomi dei pesciolini del suo acquario, i ragazzi avevano pensato che sarebbe stato un bel nome per il gruppo. L’acquario, ovviamente, era nella casa il cui indirizzo è scritto a mano dietro la copertina di Spiderland. Davanti ci sono un lago e quattro cretini a mollo. A fare attenzione ai dettagli, boh, sembra tornare sempre tutto. In Breadcrumb Trail, il documentario sul disco firmato da Lance Bangs, i genitori di Walford dicono che a casa continuano ad arrivare lettere.