“l’ultimo, sono quelle cose che ti vengono a mente… tutti m’han chiesto, come mai Grosso l’ultimo? Ma perché, ho pensato, Grosso è l’uomo dell’ultimo minuto. Ha fatto il rigore al 94esimo con l’Australia, ha fatto gol al 120esimo con la Germania, ho detto, fai l’ultimo gol, l’ultimo rigore”.
(Marcello Lippi)
È il 4 luglio 2006. La semifinale ce la vediamo dalla Nonna. La Nonna è un posto specifico a San Mauro in Valle, parte esterna di Cesena, dove ci troviamo spesso tra amici -l’appartamento sfitto della nonna di uno di noi, c’è un camino per grigliare la carne e Francesco quando cucina è dio. Una partita di una sofferenza senza senso, molto equilibrata. Sembra scritto che Italia e Germania se la giocheranno ai rigori, ma Italia e Germania non vogliono saperne, a quanto pare -nel secondo supplementare una palla-gol al minuto. Questa volta tocca a noi: Pirlo tira una sleppa senza senso, che non entra solo per un miracolo di Lehmann; Del Piero batte l’angolo in mezzo, la palla esce dall’area, ancora sui piedi di Pirlo -sta pensando di tirare ancora ma ha davanti un muro di tedeschi che stanno provando a pressare una ripartenza. La gioca di fianco, ne manda un paio al bar, con la coda dell’occhio vede Grosso a destra. È quasi sulla linea di fondo, ma è smarcato. Riceve il pallone e lo tira a giro sul secondo palo, al volo, col un sinistro. È un angolo impossibile, ma Grosso è l’uomo dell’ultimo minuto. La palla s’infila sul secondo palo. La Nonna esplode. Nessuno capisce più un cazzo. Siamo tutti completamente ubriachi e siamo tutti completamente usciti di testa. Siamo dentro al lieto fine di un film di Fantozzi. I tedeschi ci riprovano, Cannavaro se li beve, ripartiamo in superiorità numerica e Gilardino sta per andare uno contro uno. Ma Del Piero si è fatto tutto il campo e sta arrivando a sinistra. Qualche anno dopo mi capiterà di vedere un video in cui Federico Buffa dice che ha già segnato prima di ricevere il pallone, e non c’è una singola persona in Italia o in Germania che in quel momento non se ne sta rendendo conto. Il 2 a 0 si porta via tutta la voce che ci era rimasta in corpo, la faccia di qualcuno è più rossa delle ultime bottiglie di vino rimaste. L’arbitro fischia. Qualche minuto dopo chiamo la mia ragazza, lei è in estasi, l’ha vista a casa con la sua famiglia. Per la finale devi essere qui anche tu, le dico. Lei mi risponde, OK, avevamo anche i biglietti del concerto, magari lasciamo stare.
Tra tutte le cose che succedono di questi tempi, il concerto non ce l’avevo in mente. Sto con Melissa da qualche mese. Per il compleanno avevo pensato di regalarle i biglietti qualche concerto del Ravenna Festival, ci eravamo già visti Garbarek e un tributo a Gershwin. Il piatto forte erano due biglietti per vedere la filarmonica di San Pietroburgo, diretta dal maestro Yurij Temirkanov. Domenica 9 luglio, Pala De André, Ravenna.
(nota di colore per i fan di musica: il Pala De André non si chiama così in onore di Fabrizio de André, ma di suo fratello Mauro. Era un avvocato e una figura di spicco nel gruppo Ferruzzi, scomparso improvvisamente nel 1989. Il palazzetto dello sport doveva essere progettato da Renzo Piano e costruito coi finanziamenti pubblici stanziati per Italia ’90, ma una serie di vicissitudini aveva ucciso il progetto quando si era già alle fondamenta. In sostituzione venne costruito un secondo edificio, finanziato dal gruppo Ferruzzi e dedicato al loro uomo di punta, scomparso non più di un anno prima)
La settimana seguente si divide fra la strizza alla vigilia di una finale difficile, e il dubbio su cosa fare quella sera. La stessa organizzazione del festival non ha bene idea di cosa debba succedere. La vibrazione che sembra essersi impossessata della città: il concerto s’ha da fare. Ma a che prezzo? Sulla carta gli amanti della classica non sono tifosi di pallone, ma il Ravenna Festival ha una vocazione popolare (e infatti io, che non possiedo un singolo disco di classica in casa, ho due biglietti per il concerto). Il concerto è l’evento di punta del Ravenna Festival 2006, è probabilmente sold out e c’è il rischio che, a farlo in contemporanea con la partita, il 70% dei partecipanti teorici usi il biglietto per accendere il fuoco a casa, grigliare le salsicce e soffrire per 90 minuti.
C’è un altro problema, di natura logistica, a cui i ravennati hanno fatto . Il Pala De André non è un teatro. È un palazzetto dello sport, costruito in una zona strategica. Semplificando di molto, è il principale punto nevralgico a est della città, il posto dove la città inizia e finiscono i lidi. Dal Pala De André parte il servizio navetta che dalla città ti porta al mare. L’area del Pala De Andrè confina ad est con viale Europa, tra le due rotonde da cui partono le uniche due strade che dalla città ti portano al mare. E durante le serate del Ravenna Festival, quelle strade vengono chiuse al traffico per non disturbare la musica. La chiusura di quei 3/400 metri su viale Europa è la fonte di alcuni dei più bestemmiati incubi logistici dell’estate ravennate, e questi stanno pensando di chiudere il collegamento tra Ravenna e il mare, a metà luglio e la sera della finale dei mondiali. Parliamo di far cambiare strada a 50mila persone. Quindi, fatto salvo che non credo si possa dire con leggerezza alla Filarmonica di San Pietroburgo “se non vi scoccia slittiamo il concerto alla domenica dopo”, occorre trovare una soluzione di compromesso. Ma tra fare il concerto e annullarlo, si decide di farlo. La soluzione di compromesso: posticiparlo alle 21.45, nella speranza che magari la partita si risolva nei novanta minuti, e a fine incontro inizierà il concerto. Per incentivare l’affluenza si decide di montare un maxischermo al centro del palco, su cui chi non vuole rinunciare al concerto della Filarmonica di San Pietroburgo potrà comunque vedersi la partita. Non conosco, ma immagino, le speranze degli organizzatori: a fine primo tempo l’Italia ne ha presi quattro, il Paese intero si chiude in un silenzio tombale, alle nove e tre la città è deserta e qualche calciofilo deluso col biglietto già in mano fa tempo a presentarsi prima dell’inizio. Worst case scenario, sempre per l’organizzazione: la partita finisce ai rigori, l’Italia vince il primo mondiale di calcio da 24 anni a questa parte, il concerto inizia a un orario inverosimile mentre l’intera città si riversa a festeggiare ai lidi sud, con la mano incollata al clacson. In quel caso la chiusura di Viale Europa sarà un pannicello caldo, non servirà a nulla, i clacson arriveranno dentro l’auditorium, il maestro Yurij Temirkanov sbroccherà di fronte ai pochi presenti.
Per me è anche peggio. Non amo sprecare soldi ma se vado al concerto mi ficco in una lose/lose: o l’Italia perde il mondiale o io sono incastrato in un concerto di musica classica dopo che l’Italia ha vinto il mondiale. Se me lo chiedeste oggi, non saprei dirvi perché ho deciso di andare al concerto. A 18 anni di distanza mi piace pensare che si sia messo di mezzo il destino, come quella scena in cui Robin Williams racconta di aver conosciuto sua moglie, in Good Will Hunting (anche lì c’è di mezzo una partita storica); più probabilmente ai tempi era il fondato sospetto che verremo presi a pallonate dai francesi, e in quel caso avrò perso il mondiale e buttato i soldi del biglietto. Sta di fatto che i giorni prima decido di andare, e alle ore 20 di domenica 9 luglio 2006 sono seduto in una delle prime file della platea, in un Pala De André prevedibilmente semideserto. Alla mia sinistra c’è la mia ragazza. Alla sinistra della mia ragazza ci sono i musicisti della Filarmonica di San Pietroburgo, perché va bene la serietà professionale, ma quando cazzo ti ricapita di suonare in Italia la sera che l’Italia si gioca la finale dei mondiali? Dettaglio a margine, altrettanto prevedibile: io, la mia fidanzata e qualche violinista siamo gli unici under-55 presenti in questo luogo.
Partita memorabile. E che te lo dico a fare. Un cucchiaio incredibile di Zidane, un colpo di testa incredibile di Materazzi, un colpo di testa incredibile di Zidane su Materazzi. Worst case scenario servito su un piatto: si va ai rigori. Trezeguet piglia una traversa, tutti gli altri la mettono dentro. E poi l’uomo dell’ultimo minuto si presenta davanti alla porta di Barthez, e appoggia sul dischetto la palla di un’intera generazione, e ha già segnato prima di calciare.
Il minuto che segue non è molto chiaro, nella mia testa. Sto abbracciando Melissa. Sto urlando in piedi davanti allo schermo. I russi sono in piedi e festeggiano. C’è felicità in giro per il palazzetto ma non l’estasi dionisiaca che potrebbe aspettarsi qualcuno, forse perché chiunque abbia un blando interesse per il calcio in questo momento è non-qui. Poi, 60 secondi più o meno esatti dopo che la palla è entrata in rete, lo schermo si spegne. Una signora arriva al centro del palco dall’angolo, ha in mano un microfono, ci informa che il maestro Temirkanov è stato paziente ed ha atteso la fine della partita, ma ora è il momento di sederci ai nostri posti e fare silenzio e iniziare con il concerto. L’atmosfera è impensabile. Forse è una mia impressione, ma sembra che perfino i musicisti si sentano come dei liceali chiamati a sorpresa all’interrogazione di fisica, ma la donna sul palco è seria. Abbiamo vinto il mondiale di calcio da 60 secondi e dobbiamo sederci in silenzio per vedere questi qua suonare Korsakov. Ma ora se sul maxischermo partisse La Corazzata Potemkin nessuno ci troverebbe niente di strano. In qualche modo, però, l’organizzazione riesce a domare i cinque facinorosi all’interno dell’edificio, e in pochi minuti la Filarmonica di San Pietroburgo, diretta dal maestro Yurij Temirkanov, inizia il suo concerto. Il concerto di una filarmonica, per le poche esperienze che ho, è come una partita di calcio: due tempi di tre quarti d’ora ciascuno, entrambi presenti nel programma della serata (puoi sentirteli a casa e farti un’idea di come sarà il concerto). Il pubblico applaude e supplica l’orchestra di andare ai supplementari, l’orchestra acconsente sempre ed esegue una partitura a sorpresa, grossomodo un altro quarto d’ora di musica. Mentirei se dicessi che ho assistito al primo tempo del concerto: Melissa mi ha detto che è stato bellissimo. Io sono sgattaiolato al baretto del Pala De André, e mi sono guardato Cannavaro alzare la coppa assieme a un’altra cinquantina di maschi che avevano avuto la malaugurata idea di presentarsi alla serata. I quaranta minuti di Stravinskij me li ricordo molto carini: perfino io riuscivo a capire che l’orchestra suonava da dio, e credo che Stravinskij guadagni molta profondità di esecuzione aggiungendo in sottofondo una partitura di clacson. Insomma, con tutto il rispetto, come fai a isolare il rumore di una città che ha vinto i mondiali? Il maestro, in ogni caso, non dà conto di essere infastidito.
Scrivo una rubrica di musica su un freepress settimanale della mia città che si chiama Ravenna&Dintorni. Per essere precisi, la divido con un musicologo di nome Enrico Gramigna, un tipo molto schierato e rigoroso, che si occupa di classica e ha un percorso accademico. Leggendo la sua rubrica, nell’ultimo numero, ho appreso con tristezza della morte del maestro Jurij Temirkanov, avvenuta il 2 novembre 2023. Il maestro aveva 85 anni. Prendo a prestito le parole di Enrico: «Le (poche) registrazioni consegnano ai posteri la memoria di questo grande musicista incline più alle note che alle parole. (…) Leggere la storia con gli occhi di oggi può essere, certamente, utile, ma non sempre si afferrano quelle sfumature che permettono di comprendere (non giustificare) le azioni delle persone che, inevitabilmente, vivevano in quei contesti.» Così quello che avete appena letto vorrebbe essere un tributo: non so assolutamente nulla di lui, ma posso vantarmi di averlo sentito dirigere la Filarmonica di San Pietroburgo, una sola volta, nella notte di musica più surreale della mia vita. Quattro anni dopo, un video musicale sarebbe iniziato esattamente come iniziava quel concerto: il primo piano di Fabio Grosso, quel rigore a incrocio, la corsa con le braccia al cielo nella notte di Berlino, e poi comincia la musica. Il video era quello di Waka Waka di Shakira, la canzone ufficiale della Coppa del Mondo 2010. La storia della musica serve pietanze fantasiose.