È il primo giugno del 2021 e l’estate non è ancora iniziata ma un pochino sì, è nell’aria, c’è il sole e si sta fuori la sera senza il cappottino -ognuno ha i suoi riti scaramantici d’inizio estate. Coi colleghi si organizza un aperitivo prefestivo, niente di impegnativo, con chi c’è, un’oretta e mezzo di bere e chiacchierare e si torna a casa dalle famiglie in tempo per la cena. Prefestivo, non troppo incasinato. Il posto lo sceglie uno del commerciale. Ognuno ha i suoi posti preferiti. A me piacciono i posti che vendono due o tre cose a prezzi bassi e con tanti alcolizzati che ciondolano sui tavoli esterni, un altro adora il gin tonic e ha tutta una mappa della città, un altro ama i posti alla moda con la gente ben vestita e le belle ragazze (è dell’ufficio commerciale). Per stasera l’aperitivo è lanciato da lui e si va in questo posto sulle colline, in una piazzetta meravigliosa dove una volta ho visto un bellissimo concerto mezzo improvvisato di Ludovico Einaudi. Esco prima dall’ufficio perché mi è arrivato l’SMS che mi autorizza a richiedere il vaccino e voglio prenotarlo subito. Mi aspetto una gran fila al CUP; dico ai ragazzi che ci vediamo nel posto appena ho finito. In realtà sono l’unico presente in farmacia, a parte un tale di 50 anni circa che sta urlando contro le farmaciste perché è uno scandalo che per partecipare a un matrimonio ci voglia un tampone negativo e che c’è la dittatura eccetera eccetera. Nota a margine: non sono un grandissimo frequentatore di farmacie, ma è la terza volta dall’inizio della pandemia che incappo in una situazione del genere. Intendo, un frustrato che bestemmia contro la truffa del Covid dentro a una farmacia. Suppongo che questi poveri cristi ne debbano sopportare uno ogni 45 minuti; poco importa. Arrivo al baretto prima degli altri, mi siedo a un tavolo. Il posto è ancora mezzo vuoto -niente gente alla moda, niente ragazze. Nell’insegna del locale c’è scritto il nome, e sotto cocktail bar. Mi siedo a un tavolo, guardo il listino prezzi, ho un attacco di panico, lo faccio passare, tiro fuori un libro, aspetto che arrivino gli altri. L’impianto del locale sta passando Say Hello 2 Heaven. Mi chiedo cosa possa spingere un baretto alla moda (con l’ambizione di essere cocktail bar in una regione dove bere un cocktail decente è quasi impossibile, e un listino prezzi che a Porto Cervo definirebbero esoso) a passare i Temple Of The Dog, nel 2021. Casi della vita? Boh. Saranno dei fanatici di Virgin Radio. Non ascolto più i Temple Of The Dog, ma in passato li ho ascoltati. A un certo punto la voce di Chris Cornell mi è venuta un po’ a noia. Mi ricordo la prima volta che ho ascoltato questo disco, ero a casa di Francesco, negli anni del liceo, ho visto il CD, gli ho chiesto chi fossero, mi ha spiegato tutta la storia. Francesco è una delle persone con cui preferisco andare a bere, e in generale fare qualunque cosa. Poi la canzone finisce e parte Fell On Black Days. Ma cosa cazzo. Non è Virgin Radio. Vabbè. Arrivano i colleghi, si siedono al tavolo, ordiniamo le bevande e via andare. Intanto c’è Like a Stone degli Audioslave, poi c’è You Know My Name, la canzone di Casino Royale.
Va bene. Qualcuno in questo posto è un fan di Chris Cornell, o comunque abbastanza fan da pensare di suonare una playlist “Tutto Chris Cornell” nell’impianto del posto, presa con tutta probabilità da qualche portale di streaming che offre queste playlist precompilate. Dopo Mailman decido di averne abbastanza. Fermo il cameriere e gli chiedo se per favore può cambiare playlist. Il tizio mi guarda con la stessa faccia che avrebbe fatto se gli avessi chiesto di svuotare il posacenere in un tavolo che sta a 12 metri da quello in cui sono seduto: evidentemente è la prima volta da quando hanno aperto che qualcuno chiede musica diversa. I miei colleghi ridono per la faccia che ha fatto, mi coglionano un pochino per ‘sta fissa della musica, e questo soffia via un po’ della tensione sessuale che stava montando tra me e il cameriere, il quale torna dentro al posto (probabilmente a chiedere di cambiare la playlist che fuori c’è un coglionazzo che non gli va bene). I ragazzi mi chiedono che problemi ho con Chris Cornell, io rispondo che non ne ho, ma è difficile da spiegare, cioè, dieci pezzi dei Soundgarden?, suvvia. Non capiscono. Io non so spiegarlo. Intanto dagli altoparlanti la canzone s’interrompe bruscamente, e subito parte Into My Arms. The Boatman’s Call, direi 1995, coevo a Cornell ma ideologicamente opposto. Mica male. Poi però arrivano canzoni dei Birthday Party, dei Bad Seeds, di Grinderman e via, solo canzoni di Nick Cave. Mi faccio prendere dallo sconforto. Perché? Intendo, come siamo arrivati al punto di ascoltare i Birthday Party in un posto alla moda? Alla quarta o quinta canzone lo sconforto è diventato dolore fisico, un disgusto che non proverei nemmeno se mi avessero pisciato dentro al bicchiere della birra. Più esattamente, io non mi lamenterei affatto di questa cosa. Sul serio. Sono una persona remissiva. Il cameriere potrebbe tranquillamente arrivare al tavolo con una birra in bottiglia e un bicchiere con due dita di acquetta gialla e dirmi “ti ho portato un bicchiere col piscio così fai la IPA”, e io potrei tranquillamente ringraziarlo, versare la birra nel bicchiere e berla davanti a lui, giusto per far vedere che sono gentile. Per qualche motivo, invece, l’idea di stare a bere in un posto e stare ad ascoltare una playlist di un’ora contenente canzoni cantate dalla stessa persona, di cui oltretutto ho comprato una badilata di dischi, mi fa stare malissimo. Ma d’altra parte mi sono già bruciato il bonus di rotture di cazzo al cameriere, e quindi continuiamo a bere e parlare e ri-bere e ri-parlare, per quanto consentito dal listino prezzi, finché non è ora di tornare dalle nostre famiglie un po’ brilli e con tre quarti d’ora di Nick Cave sulla groppa.
Sono disposto ad ammettere che questa avversione per questi carnai di musica snob spacciati in contesti casuali sia una mia fissa e basta. Se il postpunk non dà fastidio alla gente comune, non vedo perché dovrebbe dare fastidio a me. Ma dall’altra parte mi trovo spesso ad essere stupito, perfino imbarazzato, dal modo in cui la percezione della musica è cambiata nell’ultimo decennio. È una cosa che diamo per scontata perché in questi contesti la musica è considerata una specie di tappezzeria dei locali -c’è gente che sceglie i locali per la tappezzeria, ma la maggior parte della gente li sceglie per altri motivi. Quindici anni fa era praticamente impensabile che un posto da aperitivi con un cocktail menu più lungo della Colonna Traiana suonasse una playlist tutto-Nick Cave o tutto-Chris Cornell. Sono cresciuto in un’epoca nella quale vigevano regole informali secondo cui certa musica non era adatta alla condivisione collettiva di esperienze, che fosse giusto o meno. Poi naturalmente è altrettanto normale che la musica che fino a 10, 20 o 30 anni fa era proibita e considerata sgradevole diventi la base culturale del nuovo easy listening, un processo culturale simile a quello della gentrificazione che ad esempio abbiamo visto succedere con il jazz (per cui nei primi anni duemila potevi mettere Brotzmann in un locale a volume medio-basso senza che nessuno sentisse il bisogno di alzarsi dalla sedia e fuggire). La differenza tra quell’epoca e quella odierna è che l’ultima generazione di inascoltabile si è gentrificata senza generare altra musica inascoltabile, generi musicali che offendano il pubblico. L’educazione del pubblico generico è arrivata a un punto per cui chiunque può ascoltare inconsciamente classica contemporanea, elettronica di super-avanguardia, noise, ambient, minimalismo, hip hop brutale, musiche tradizionali del quarto mondo eccetera, senza nessun problema. In un’epoca in cui chiunque si lamenta di qualunque cosa venga detta scritta o twittata, è praticamente impossibile trovare persone infastidite da qualsiasi musica.
Immagino che questo dipenda da tanti fattori. Pensiamo solo alla riproduzione. Nei primi anni duemila sarebbe stato impensabile ascoltare una playlist “tutto Nick Cave” simile a quella che ho ascoltato nel baretto dei cocktail. Sarebbe stato possibile ascoltare una compilation “Tutto Califano” che usciva dallo stereo di un porchettaro ossessionato dal Califfo, ma è una cosa diversa. Tutti i luoghi di intrattenimento dovevano scegliere un modo di selezionare la loro musica tra questi tre:
1) Impiegare un dj (se il termine vi offende chiamatelo selettore, parliamo comunque di qualcuno il cui lavoro è scegliere musica
2) Sintonizzarsi su una stazione in FM
3) Comprare dei CD e suonarli sullo stereo.
Inciso: non è che una modalità sia necessariamente meglio o peggio delle altre. Tutt’altro. Il fatto che il locale impieghi un dj non significa che quel locale abbia musica migliore di quella che avrebbe se mandasse in diffusione una radio qualsiasi. Io personalmente sono molto affascinato dalla categoria 3, perché ha generato una sottocultura gigantesca di musiche surrogate altrimenti ingiustificabili, e generi musicali il cui unico imperativo è quello di non rompere il cazzo a chi ti sta ascoltando. Un luogo che sceglie di suonare dei CD è un luogo che non può permettersi di pagare un dj ma non può nemmeno accontentarsi di una radio, quindi ad esempio i ristoranti dove c’è bisogno di atmosfera. Che disco comprereste se qualcuno vi chiedesse atmosfera? Domanda trabocchetto. Sono locali in cui prosperano progetti artistici sospesi tra massimalismo e minimalismo, come il succitato Ludovico Einaudi, ad esempio
(parentesi completamente fuori argomento: non voglio dire che mi piaccia Giovanni Allevi, ma se mi faceste ascoltare certi pezzi di Allevi senza farmi vedere la copertina del CD e/o leggere i titoli dei brani, è ragionevole pensare che io non riuscirei a distinguerlo da certe cose un qualunque altro pianista contemporaneo di cui ho comprato dischi con entusiasmo, tipo Hauschka o Eluvium o gente del genere; quindi in realtà penso che Allevi sia scarso perché lo dicono certe persone di cui più o meno mi fido, e io non ho una laurea in teoria musicale per smentire queste persone)
oltre naturalmente a quello che è con tutta probabilità il peggior genere musicale della storia occidentale, vale a dire i dischi di reinterpretazioni in chiave lounge-slowjazz-eterea di qualunque classico del pop sia mai stato immesso sul mercato, possibilmente immagazzinate in un solo album doppio registrato con mezzi di fortuna. Questa brodaglia impalpabile che nessun gestore di negozi di dischi si azzarderebbe ad esibire nei propri scaffali, e nessun compratore di dischi si azzarderebbe a portare a casa, resisteva eroica in certi spazi dedicati della grande distribuzione per soddisfare appieno il bisogno di musica non-musicale, di canzoni facili, silenzio e attitudine shabby di baristi e ristoratori, macinando numeri che immagino inimmaginabili.
Rimane comunque il punto: se volevi musica nel locale, e magari volevi resistere alla tentazione delle cover con l’ocarina o il violoncello, dovevi assumere un dj o mandare in diffusione una radio in FM. Oggi invece te ne vai a bere in un posto pieno di stronzi azzimati con l’abbronzatura perfetta e i tatuaggi, quei tizi che si chiamano tra loro con le prime due sillabe del cognome (“scolta Monta noi siamo qua al baretto aspettiamo Dima e poi andiamo a ‘sta festa che ha organizzato la morosa di Caste”), e capacissimo che l’impianto del locale passi i Joy Division, Ital Tek o Congotronics. Nessuno si offende. Tutta roba che 10 anni fa non avresti avuto il coraggio di mettere manco alle cene in casa tua con gli amici che vengono con te a vedere i concerti. L’ho visto succedere. Nessuno batte ciglio. E mica solo questo: le playlist dei supermercati si compongono di dischi che qualcuno di noi ha aspettato e comprato il giorno dell’uscita con entusiasmo (non so, Sonic Youth, The National, Bon Iver); se accendete la TV vi trovate davanti a una fiction italiana su Raiplay, o un qualche programma trash, e vi trovate con la massima tranquillità ad ascoltare brandelli di canzoni folk macilente per cui vent’anni fa sareste stati in grado di mollare la fidanzata/o, e classici del soul, gruppi slowcore col pedigree inattaccabile. Magari un personaggio minore con addosso la maglietta dei Nine Inch Nails. Questa è una conseguenza delle cose di cui parlavo sopra, immagino. Se è vero che al 70% della gente non frega assolutamente nulla di che musica ci sia in sottofondo, tanto vale accontentare l’altro 30% e mettere un pezzo dei Sixteen Horsepower. In altre parole, lo snobismo musicale ha infettato il mainstream attaccandolo nel più ovvio dei punti deboli. Anche perché poi il mainstream è già invaso di operatori e cottimanti che pensano alla musica più di quanto ci abbia pensato io in tutta la vita, e alcuni di questi hanno un certo potere decisionale, una tenacia indomita o quella nonchalance sgarzolina che hanno le persone le cui basi finanziarie permettono di non considerare così importante la conservazione del posto di lavoro. Se ascolti questa gente parlare del proprio contributo culturale al mainstream di questo secolo ti dicono che abbiamo fatto la rivoluzione. Fanno bene a dirlo: l’hai chiesto a loro. Io personalmente ho scoperto che il mio gusto personale sta meglio chiuso dentro alla mia macchina o alle mie cuffie, che se guardi troppo a lungo dentro l’abisso scoprirai che anche l’abisso guarda dentro di te, e che stavo decisamente meglio quando al posto di Nick Cave passavano ancora El Talisman.
Nota: questa mail è la versione riveduta e molto espansa dell’episodio estivo dell’episodio estivo (Luglio 2021) della mia rubrica su Rumore. La rubrica naturalmente è ancora in corso, occupa una pagina della rivista e si intitola PANZANE. L’argomento sono alcuni assunti e pratiche legati al mondo della musica su cui tutti sono d’accordo, nonostante siano platealmente falsi. L’episodio sulla rivista in edicola, Damon Albarn in copertina, parla dei voti ai dischi.