Una cosa che mi fa imbestialire sono le pubblicità prima dei trailer su YouTube, ad esempio. Razionalmente capisco perché l’impalcatura economica di internet mi imponga di guardare uno spot per avere il diritto di vedere un altro spot, ma mi fa imbestialire lo stesso. È il solito discorso di capire quale sia il prodotto, chi stia vendendo e chi stia pagando nell’epoca di internet. Forse è questa cosa, con le dovute differenze, che mi fa così tanto schifo quando mi capita di dare un’occhiata ai live streaming di Coachella. Nel mondo che a un certo punto mi trovavo a vivere, parlo di quando ho iniziato a seguire la musica, la posizione geografica di casa mia non mi dava nemmeno accesso ai canali televisivi che passavano i videoclip in Italia. In quel momento, se mi avessero detto che vent’anni dopo avrei potuto seguire in diretta i concerti degli artisti più quotati del momento, in uno dei festival cruciali dell’anno musicale, collassato nel dormiveglia sul divano di casa mia, avrei probabilmente ordinato una capsula temporale dal mio ferramenta. E non nego l’entusiasmo che queste possibilità mi suscitano anche ora, ma forse avrei dovuto leggere con più attenzione i testi scritti dietro in piccolo. Oggi che gli streaming di Coachella sono diventati una stanca routine a cui anche il giornalismo musicale italiano partecipa in massa, mi sembra ormai impossibile distinguerli da un qualunque Sanremo od Eurovision. Molto incide il bisogno degli artisti, probabilmente risucchiati dal buco nero delle sovrinterpretazioni date ai tempi del concerto di Beyoncé (di cui tutti parlarono come di una grande rivoluzione dell’estetica musicale, e che visto oggi sembra più che altro l’arrogantissimo panel della designer d’interni del pianeta ideologico in cui due anni dopo ci saremmo trovati costretti ad abitare), o peggio ancora dell’ologramma di Tupac, e che oggi affrontano il palco principale con la paura di non essere nelle condizioni di mettere in scena almeno dieci secondi che entrino nella storia della musica. Come se fosse il draft annuale delle grandi case del fashion e del makeup o la campagna acquisti per la prossima stagione di spot pubblicitari in streaming, in cui l’ultima cosa che sembra succedere è uno scambio tra quelli sul palco e quelli sotto al palco, figurarci quelli a casa. Ancora una volta, un momento in cui è virtualmente impossibile capire chi sta vendendo cosa a chi altro, e a che termini -e pensare che qualcuno ha speso soldi per assistere a questo spettacolo di persona, in qualche modo mi fa venire da vomitare. Non voglio spingermi a dire che assistere a Coachella sia assistere alla morte della musica, ma in certi passaggi sembra quantomeno un film horror con degli zombi mooolto credibili.
(informazione di servizio: sono moderatamente attivo su Substack Notes. penso che sia tutto sommato una buona idea e sono curioso di sapere come va a finire. Il mio principale contributo sarà legato al new music friday -brevi recensioni dei dischi che escono ogni settimana. Nel caso vi interessi, passate a fare un saluto)