Mi piace chiamare sindrome di Trent Reznor quello spiacevole disturbo della personalità di cui soffrono alcuni artisti, i quali dopo aver messo ordine alla propria vita ed essere usciti da una spirale discendente che sembrava non avere vie d’uscita, iniziano a far uscire un sacco di dischi di merda. Trent Reznor, che dà il nome alla sindrome, ha sospettato per anni di soffrire di una patologia di segno uguale ed opposto: la tossicodipendenza da dolore. I suoi dischi più influenti sono stati pensati e prodotti nei momenti più grigi della sua esistenza -depressione, droghe, violenza, istinti suicidi e tutto il cucuzzaro. Il suo racconto di quell’esperienza, in certi casi piuttosto dettagliato e (almeno all’apparenza) onesto, influenza la mia analisi critica. L’oggettivo valore dei suoi dischi post-The Fragile (di quando in quando interessanti ma perlopiù sciatti) tende a corroborare i miei pregiudizi sulla faccenda. La parte interessante della sindrome di Trent Reznor è che si specchia, più che nella carriera del musicista, nelle abitudini dell’ascoltatore. Mette a nudo il suo sadismo e il suo bisogno di sfruttare il dolore altrui per elevare il proprio e/o passare tre o quattro minuti a caricarsi in una discoteca. La parabola umana di Trent Reznor negli ultimi vent’anni è stata confortante: è uscito da un periodo oscuro, è un musicista di grandissimo successo, sembra molto felice e lavora alle sue condizioni. Non sono mai riuscito a perdonarglielo davvero.
(The Downward Spiral usciva oggi, trent’anni fa)
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La scena più celebre di Ogni maledetta domenica è senz’altro il monologo dell’allenatore all’interno dello spogliatoio, pochi minuti prima di scendere in campo per la partita decisiva. Si tratta di un motivational speech tradizionale, nobilitato da una performance ispiratissima di Al Pacino (e in Italia da un doppiaggio clamoroso di Giannini) e molto significativo all’interno del film in cui è inserito: cinque minuti di cinema americano classico all’interno di quella che è probabilmente l’opera pop più riuscita di Oliver Stone. La bellezza della sequenza le ha permesso di uscire molto in fretta dal film ed imporsi nella cultura popolare come una specie di videoclip, una di quelle scene che tutti hanno visto almeno una volta -anche quelli che non hanno visto il film. Un po’ come la scena di Palombella rossa in cui Nanni Moretti dice che le parole sono importanti o le ultime parole di Rutger Hauer in Blade Runner. Ma se la scena di Palombella rossa è diventata un totem dei grammar nazi e le navi in fiamme al largo dei bastioni di Orione infestano più che altro il diario delle persone sensibili, il monologo di Ogni maledetta domenica ha fatto una fine che sospetto non essere particolarmente gradita al regista del film. Se avete mai frequentato uno di quegli eventi aziendali di ispirazione nordamericana in cui la direzione cerca di motivare i dipendenti con filmati, giochi di gruppo e musiche dei Village People, avrete assistito alla versione trash di quel video, e non credo che un militante come Oliver Stone sia particolarmente contento di pensare a se stesso come a un animatore delle convention di Standard&Poor.
Nel mercato occidentale si parla molto spesso di una cosa che, nominalmente, si chiama ancora diritto d’autore. In senso generale sta ad indicare che l’autore di una certa opera gode appunto di alcuni diritti su di essa, come ad esempio il diritto di prendere alcune decisioni sulla sua diffusione, ad esempio permetterne l’utilizzo in certi contesti e proibirlo in altri. Ma nell’accezione contemporanea si intende per diritto d’autore l’esatto opposto di questo, vale a dire una certa somma monetaria che qualcuno paga all’autore perché non eserciti i propri diritti sull’opera. Tecnicamente in questo caso si parla di ‘cessione dei diritti’, ma all’atto pratico è una mazzetta (o di una provvigione, se qualcuno trova mazzetta offensivo) messa a budget e su cui sono tutti più o meno d’accordo, che permette al pop di fare il suo lavoro e permeare il quotidiano degli esseri umani senza che vadano a crearsi questioni e sovrastrutture che ormai tutti considerano prive di senso. Su questa cosa esiste un mercato, com’è ovvio che sia, ed è un mercato che non conosce crisi. Il trasferimento di denaro è ancora il modo più efficiente per ridurre l’impatto ambientale dell’esistenza del diritto d’autore. Il processo creativo alla base dell’arte tende a creare un legame affettivo tra l’autore e la sua opera, mentre una persona che l’ha semplicemente pagata tende ad essere molto più razionale e cinica in merito ai suoi usi. Nella stragrande maggioranza dei casi questo non pone problemi di ordine etico, anche perché parliamo di canzoncine -roba che trae il suo senso dall’essere ovunque. Più la tua opera si diffonde, meno ti appartiene. La stragrande maggioranza degli artisti pop riesce a convivere agevolmente con questo senso privazione, limitandosi ad incassare i benefici delle proprie opere in termini di liquidità e status, senza mai trovarsi a rimpiangere di aver consentito l’utilizzo di un pezzo di musica a chicchessia. In certi casi succede che questa nonchalance, questo concedere allegramente tutto e a chiunque, finisca per imboccare un tunnel di mostruosità devastanti. Nessuno, per quanto poco sano di mente, vuole scoprire cosa ci sia in fondo a quel tunnel. Credo che in qualche modo Trent Reznor l’abbia scoperto suo malgrado.
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Succede nell’ultima parte del 2008. È un periodo di subbuglio per la musica americana: nelle classifiche entrano per la prima volta dischi di artiste che in quel momento figurano come esordienti o quasi e che domineranno tutto il decennio successivo: Katy Perry, Lady Gaga, Rihanna, la stessa Beyoncé (che in quell’anno pubblica Sasha Fierce, il salto di qualità). Sulla homepage dei Nine Inch Nails, che già da tempo hanno imboccato la china della mediocrità, compare un breve testo:
“It’s difficult for me to imagine anything more profoundly insulting, demeaning and enraging than discovering music you’ve put your heart and soul into creating has been used for purposes of torture. If there are any legal options that can be realistically taken they will be aggressively pursued, with any potential monetary gains donated to human rights charities. Thank GOD this country has appeared to side with reason and we can put the Bush administration’s reign of power, greed, lawlessness and madness behind us.”
Barack Obama ha vinto da poco le elezioni presidenziali e sta per insediarsi alla Casa Bianca. La drammatica recessione dell’economia mondiale in seguito alla crisi dei mutui subprime si è abbattuta come una scure su tutto il mondo e ha fatto da spartiacque, molto più della guerra in Medio Oriente, tra due concezioni di America che avrebbero dovuto avvicendarsi. In quei giorni caso vuole che vengano pubblicati sui quotidiani alcuni documenti riservati che contengono le linee guida per condurre gli interrogatori all’interno delle basi americane durante l’invasione di Afghanistan e Iraq. Sono i documenti con cui i cittadini americani scoprono, nero su bianco, che il loro governo ha torturato i propri prigionieri per tutto il decennio passato. Una delle tecniche di tortura utilizzate per spezzare la loro volontà e costringerli a collaborare è la privazione del sonno: i carcerati vengono tenuti svegli suonando musica a tutto volume all’interno delle celle, fino allo sfinimento. Nei quotidiani c’è di più: una lista di canzoni ed artisti che, a quanto si dice, sono stati usati. È una lista un po’ confusa. che negli anni andrà a definirsi con maggior precisione, attraverso memorandum che pian piano vengono desecretati o resi pubblici tramite leak indesiderati, e testimonianze di alcuni ex-prigionieri. Una specie di playlist della vita e della morte. Tra i primi nomi che vengono fuori ci sono quelli di Marilyn Manson, Britney Spears (figurarsi), Metallica, Nine Inch Nails. Da cui, appunto, il laconico comunicato di Reznor.
È difficile immaginare da fuori quali possano essere i sentimenti di un artista, specie di un artista radicale come Trent Reznor. Canzoni come Somewhat Damaged e March Of The Pigs (quelle che a quanto pare sono state suonate a scopo di tortura) non si fanno problemi a flirtare con il lato oscuro e teatralizzare la sofferenza (che fosse propria o altrui, a un certo punto della storia del pop non era poi così importante). Lo stesso artista che si è schierato così duramente contro l’amministrazione Bush e quell’utilizzo delle sue canzoni ha passato molto tempo a cercare di spingere un po’ più in là, magari in maniera inconscia, i confini tra lecito ed illecito, e si può senz’altro dire che abbia guadagnato reputazione e soldi dagli scandali che hanno girato attorno a lui per un decennio. Non è così lontano dai testi dei R.E.M., appunto: l’assenza di riferimenti concreti e posizioni politiche forti permette a tutti di riempire gli spazi vuoti e colorare le aree grigie con la tinta che preferiscono. Ma quanta libertà è concessa a questa identificazione? Come si può pensare di produrre musica sapendo che le condizioni (di genere, popolarità, etc) a cui viene prodotta la rendono utilizzabile per torturare altri esseri umani?
In realtà la presa di posizione nel movimento culturale statunitense è tutt’altro che unanime. È difficile dar conto di un periodo storico che in prospettiva anche molti americani hanno rimosso, ma ci sono dichiarazioni a caldo di segno totalmente opposto a quella di Trent Reznor. Il caso più famoso è senza dubbio quello dei Drowning Pool, orripilante gruppo groove-metal uscito dall’onda crossover dei primissimi anni duemila. Saputo dell’utilizzo di canzoni dei Drowning Pool a scopo di tortura, il bassista della band si affretta a dichiarare ad Associated Press di essere onorato all’idea che le canzoni del suo gruppo siano state utilizzate dall’esercito statunitense per combattere il terorrismo. Fa un po’ paura leggere affermazioni del genere in merito a una delle più discusse violazioni allo stato di diritto dell’ultimo trentennio in Occidente, ma negli anni duemila lo stato di diritto non è particolarmente in voga tra i liberali (non solo in USA: due anni prima sul Corriere della Sera usciva il celeberrimo editoriale Il compromesso necessario, scritto da Angelo Panebianco).
L’era Obama ha fatto molto per riallineare il pensiero statunitense al fantasma dello spirito del tempo, e i quattro anni di Donald Trump ancora di più. Trump ha reso necessaria la creazione ex-novo di una classe intellettuale statunitense unita, compatta e che creasse sistema nell’essere anti-sistema, mentre nel 2008 è ancora molto difficile pensare contro un governo che voleva combattere contro chi aveva buttato giù il World Trade Center, o comunque qualcuno che aveva qualche legame con loro, o comunque delle brutte persone. All’atto pratico siamo passati nel giro di due presidenti dall’ostracismo verso le Dixie Chicks, colpevoli di aver parlato contro l’amministrazione Bush nel 2003, all’emarginazione di Kanye West, colpevole di -beh, di qualunque stronzata abbia detto Kanye West questa settimana.
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La realizzazione di The Downward Spiral è come minimo controversa e contribuisce in maniera determinante ad imporre il mito di Trent Reznor così come andremo a conoscerlo dopo l’uscita del disco. Nominalmente The Downward Spiral è il secondo disco a piena lunghezza inciso dai Nine Inch Nails dai tempi di Pretty Hate Machine (1989), ma all’atto pratico il musicista di Mercer ha passato gli anni che vanno dall’uscita del suo esordio al ‘94 a costruirsi una reputazione inossidabile. L’evoluzione musicale dei Nine Inch Nails da Pretty Hate Machine a The Downward Spiral passa per un EP intitolato Broken, che a sua volta produce un gemello di remix (Fixed). Rispetto al disco d’esordio Broken sembra seguire le orme dell’evoluzione di uno dei numi tutelari/compagni di scorribande di Reznor, vale a dire Al Jourgensen dei Ministry. L’industrial osservante dei dischi anni ottanta inizia a trasformarsi pian piano in una forma di metal granitico impostato su atmosfere apocalittiche e cavalcate infinite. Per i Ministry il punto di arrivo è Psalm 69, il loro disco di maggior successo commerciale e quello su cui il gruppo, volente o nolente, finirà per adagiarsi dal punto di vista artistico, diventando appannaggio quasi esclusivo delle frange più moderniste del pubblico heavy metal (tanto per dire: la scorsa settimana è uscito un disco nuovo della band, che continua a mettere in scena lo stesso spettacolo). I Nine Inch Nails, da parte loro, col metal hanno poco o nulla a cui spartire. È vero che le esibizioni dal vivo della band al primo tour in America hanno già la fama di eventi di violenza assoluto, ma l’amore di Reznor per le chitarre distorte sembra più un’infatuazione dovuta in parte al periodo storico in corso e in parte all’esigenza di portare all’estremo le ambiguità di un impianto musicale complesso e contraddittorio in cui, tuttavia, nel prodotto finito ogni cosa riesca a sembrare esattamente dove deve essere. Il disco a cui sta lavorando è il risultato di questo impianto, incrocia una fase di creatività assoluta. Viene registrato in uno studio casalingo, costruito all’interno della villa in cui dei seguaci di Manson uccisero Sharon Tate nel 1969 (in anni successivi Reznor dirà di non esserne stato a conoscenza nel momento in cui siglava l’accordo per la casa, ma credo ci sia un limite al numero di stronzate che siamo disposti ad accettare). La mossa viene tenuta tutt’altro che nascosta, diventa anzi una delle colonne su cui si costruisce la promozione di un disco che un po’ tutte le persone coinvolte vogliono vendere come un’opera maledetta -che lo sia o meno. Il che, va detto, funzionerà alla grande. L’incrocio quasi perfetto tra qualità musicale, voci di corridoio e progetti collaterali del musicista rendono The Downward Spiral un game changer del pop degli anni novanta, uno dei dischi più complessi ed apprezzati di quel periodo. Un successo istantaneo sia di critica che di pubblico, spinto da singoli fascinosi (il primo è un violentissimo standard techno-metal come March Of The Pigs) e perfettamente inseribile nel malmostoso zeitgeist del 1994 (l’album esce poche settimane prima del suicidio di Kurt Cobain).
Nei mesi precedenti all’uscita di Downward Spiral Reznor ha anche portato a termine le registrazioni (ri-registrazioni, per essere esatti) del disco d’esordio di uno sconosciuto cantante attivo nel sud della Florida, nome d’arte Marilyn Manson. La sua band è una specie di bignami dell’horror-rock, pesca musicalmente dal bacino techno-metal dei vari My Life With The Thrill Kill Kult o White Zombie, aggiunge iconografie alla Alice Cooper, testi pieni di citazioni, sberleffi all’immaginario redneck, critica sociale un tanto al chilo e poco altro; l’ingresso nella sfera di Reznor è con tutta probabilità motivato dalle sole affinità artistiche, ma l’uscita dell’esordio a pochi mesi di distanza da Downward Spiral fa sì che a tutti gli effetti, nella prima fase della sua carriera, Manson sia percepito da chiunque come un Trent Reznor dei poveri, un’ostensione di tutti i non detti (esoterismo, fascino per l’estreno, soft-horror eccetera) che circondano i Nine Inch Nails. Nello stesso periodo Reznor viene coinvolto da (guardacaso) Oliver Stone nella compilazione della colonna sonora di Assassini Nati, un film scritto da Quentin Tarantino che passerà alla storia come uno dei più controversi della storia americana. Impostato come una specie di dozzinale black comedy, racconta le peripezie di una coppietta di serial killer che i media americani hanno reso popstar. Il film è montato in maniera simile al film precedente di Oliver Stone, JFK, ma i toni volutamente sopra le righe e il soggetto della pellicola lo rendono all’atto pratico un compiaciuto videoclip di un’ora e mezzo in cui gli attacchi politici alla società dello star system si perdono in un’impepata de cozze (anche questa perfettamente in linea con lo stile da grande abbuffata di un certo cinema giovanilista dell’epoca). Reznor fornisce una manciata di canzoni inedite dei Nine Inch Nails e una selezione di brani di altri musicisti che non si pone troppi problemi a mischiare RATM e Leonard Cohen. Nello stesso periodo i Nine Inch Nails finiscono in un altro film controverso: Il Corvo di Alex Proyas, durante le riprese del quale l’attore protagonista perde la vita. Reznor contribuisce registrando con la sua band una versione industrial di Dead Souls, con cui si guadagna l’ingresso nel ristretto novero delle band che sono riuscite a far uscire una cover dei Joy Division senza suonare ridicoli. È in pieno corso, in altre parole, un processo di santificazione di Trent Reznor che mette insieme un certo timore nei confronti della sua figura, l’assoluta coscienza della sua capacità musicale e l’evidenza empirica per cui questo personaggio, tutto sommato schivo e poco incline a frequentare lo show business, sia uno dei centri nevralgici dell’immaginario popolare. Nel 1997 finirà in una lista dei 25 americani più influenti dell’anno, redatta da Time Magazine. Tra gli altri nomi presenti nella lista ci sono Madeleine Albright, Colin Powell, George Soros, Harvey Weinstein. Non è tanto il modo in cui si parlerà di queste persone negli anni a venire, ma la coscienza delle differenze tra queste persone e Trent Reznor. Dieci anni prima di finire in quell’articolo, Michael Trent Reznor è un ragazzo spiantato che di lavoro fa le pulizie in uno studio di registrazione a Cleveland, e ha fatto un accordo col proprietario dello studio per registrare i suoi pezzi nelle ore libere tra una session e l’altra (Pretty Hate Machine è nato così). Soprattutto: nei giorni in cui l’articolo esce, definendolo “l’anti-Bon Jovi”, Michael Trent Reznor è chiuso in casa, affronta un periodo estremamente difficile della sua vita, combatte con problemi di tossicodipendenza e sta seriamente pensando di uccidersi.
Questo aspetto è in qualche modo esaltato da The Downward Spiral, un disco a quel punto vecchio di tre anni. L’artista potrebbe averlo pensato come una sorta di auto-profezia, o (più probabilmente) potrebbe essere impantanato nella stessa situazione di estrema difficoltà da cinque anni e passa. È forse in questo contesto che si realizza appieno la sindrome di Trent Reznor, appunto, quel genere di dipendenza dal dolore che può renderti estremamente funzionale nel mondo dell’arte (e alla fine degli anni novanta tutto quello che viene toccato da Trent Reznor si trasforma oggettivamente in oro).
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The Downward Spiral è un disco molto difficile da comprendere. A livello superficiale si tratta di un concept album, incentrato su una sorta di viaggio interiore di un anonimo protagonista che a dispetto di un continuo cambio di punti di vista io/tu/lui è evidentemente sempre lo stesso (spoiler: alla fine questa persona si uccide). Musicalmente è un indecifrabile: non fa mistero della sua complessità, fin dai primissimi ascolti, ma si concede numerosi episodi di thrash metal dozzinale. Per molti versi è un disco dimenticato, o comunque un disco che non ha segnato la cultura contemporanea come possono averlo fatto altri titoli di quegli anni (anche solo un disco come Superunknown dei Soundgarden, per dire di un album uscito lo stesso giorno, torna molto più spesso nell’immaginario popolare). Se doveste stilare una lista dei dieci titoli più importanti degli anni novanta, è probabile che lascereste The Downward Spiral fuori dalla lista. Questo forse è dovuto alla sua natura trasversale, o alla sua difficoltà di essere incasellato, anche nella casella dei dischi difficili da incasellare. Se pensiamo ai posti in cui alcuni dei pezzi di quel disco sono finiti, tuttavia, c’è da rimanere a bocca aperta. A partire, ovviamente, dalle strutture in cui l’esercito americano torturava i prigionieri usando March Of the Pigs a tutto volume. E provate a mettere insieme questo contesto con quello descritto da Suzan Elizabeth Shepherd, che in un fondamentale articolo su Revolver, in cui ripercorre la storia di come Closer sia diventata il classico più suonato negli strip club americani nell’ultimo quarto di secolo, la canzone (che, ricordiamo, segue March Of the Pigs in scaletta) su cui sono state ballate più lapdance. E mettete tutto questo dietro al momento in cui Hurt, forse il capolavoro assoluto del disco, finisce nelle mani di Johnny Cash, che ne farà il suo testamento spirituale.
Anche qui: questioni di diritto d’autore. Nel ripercorrere la storia di Hurt, Reznor racconta di essere stato poco entusiasta all’idea di darla a Cash, e di aver concesso l’utilizzo a Rick Rubin dopo un notevole sforzo di convincimento da parte del produttore. ‘Ma quando ho visto per la prima volta il video, ho capito che quella canzone non era più mia’. A volte ti va bene, a volte ti va male.
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The Downward Spiral usciva in un Occidente nel quale il sistema di valori era molto diverso da quello di oggi. Oggi abbiamo il privilegio di poter giudicare la Storia a qualche anno di distanza, con il ritiro delle forze americane dall’Afghanistan e la contestuale rioccupazione di Kabul da parte dei Talebani -dal punto di vista dello scacchiere internazionale, torturare i prigionieri con March Of The Pigs non è servito a molto. Non ci sono notizie pubbliche di una causa tra Nine Inch Nails e governo degli Stati Uniti, il che non significa necessariamente che la causa non ci sia stata. Personalmente non sono più così tranquillo nell’ascoltare a cuor leggero alcune delle canzoni che sono finite in quella lista; è possibile che io me la prenda troppo a cuore, oppure no. Ma c’è anche un altro aspetto da considerare, legato a questo: esiste, oltre a un diritto d’autore, un diritto di consumatore? È una domanda che il pubblico si pone sempre più spesso, diciamo dall’inizio del caso Weinstein in poi -ma più in generale, che è costretto a porsi nell’era dei leaks.
Per me personalmente la storia del metal contemporanea inizia nel dicembre 2012, nel momento in cui Ian Watkins, cantante dei Lostprophets (un gruppo nu-metal britannico, sostanzialmente contemporaneo ai Drowning Pool e di valore artistico diciamo comparabile) viene arrestato con l’accusa di aver molestato bambini e diffuso materiale pedopornografico. Nei mesi a venire la vicenda si arricchisce di particolari che un regista horror sarebbe stato imbarazzato a mettere in un film -registrazioni, dettagli agghiaccianti, probabile abuso di droghe, probabile abuso dello status di cantante di successo di Watkins. I Lostprhophets annunciano lo scioglimento nel 2013, poco prima della condanna del vocalist a 35 anni di prigione (sta ancora scontando, le notizie che escono di tanto in tanto non sono particolarmente divertenti). Non è necessariamente una vicenda con una qualche importanza culturale, ma è una vicenda che vent’anni prima sarebbe stata impensabile. Gli scandali che hanno coinvolto popstar molto più grosse dei Lostprophets -e quindi più succosi in potenza- sono stati messi a tacere in tempo per evitare a certe vicende di superare i limiti tra gossip insistente e cronaca giudiziaria. Il metal in particolare ha attraversato un ventennio davvero merdoso in questo senso. Esaurita l’euforia intorno al crossover, forse l’ultimo momento in cui il rock pesante ha pensato seriamente di dare un contributo all’immaginario mondiale, il metal estremo ha deciso di rinchiudersi in una nicchia per introdotti e rinunciato a qualunque tipo di sollecitazione esterna. Gli anni successivi sono passati a barcamenarsi tra osservanze religiose di rituali ormai incomprensibili, pantomime da scuola d’arte, maschilismo tossico ed occasionali mattane. È ragionevole pensare che molta della responsabilità sia da attribuire alla leggerezza con cui il rock estremo aveva affrontato le questioni ideologiche nel ventennio precedente. Ma come detto c’è stato uno shift di valori, e se guardi a lungo nell’abisso, eccetera eccetera. Così oggi leggiamo pagine come Metalsucks con un atteggiamento che alterna orrore, imbarazzo, risate e vergogna, sapendo che il prossimo mese arriverà una storia di cronache ancora più assurda di quelle che abbiamo già letto.
(la scorsa settimana, non riesco a non raccontarlo, è uscito che un gruppo di nome Llorona ha fatto fuori il cantante dopo aver scoperto che il cantante tagliava gli integratori di un altro membro del gruppo con cui faceva palestra, riempiendolo di estrogeni per spingerlo a una transizione, il tutto per far sì che la sua fidanzata lo lasciasse e si mettesse con lui)
Per molti versi gli appassionati di rock estremo si sono ritrovati a percorrere lo stesso tunnel di cui parlavo sopra, e nessuno ha davvero trovato gradevole scoprire cosa ci fosse alla fine. Questo ha avuto ripercussioni importanti, e impossibili da tralasciare, sulla nostra collezione di dischi: molti titoli che hanno segnato la nostra vita oggi sono sostanzialmente inascoltabili a causa di cose successe fuori da quei dischi. Non è successo a The Downward Spiral, un disco molto più buio e violento, scritto da un artista che per un certo periodo sembrava essere il puparo di un circo degli orrori, ma sul quale per qualche motivo siamo ancora disposti a mettere la mano sul fuoco.
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L’assalto più riuscito allo status di capolavoro assoluto che The Downward Spiral meriterebbe è arrivato dall’interno. Nel 1999 Trent Reznor esce da un biennio di auto-reclusione con un disco, The Fragile, che chiude idealmente gli anni novanta e riesce quasi ad umiliare (in termini di visione, qualità musicale e potenziale pop) qualunque cosa a cui abbia mai messo mano. In qualche modo è The Fragile a fornire l’ultimo pezzo per il puzzle di The Downward Spiral, certificando una caducità e un senso di incompletezza che forse, in tempo reale, non saremmo mai stati disposti a riconoscergli. In merito al trentennale di The Downward Spiral non c’è molto da dire: la mia percezione, come dicevo, è che il suo ascendente sulla cultura contemporanea si sia molto affievolito, ma esistono decine di prove ed elementi che sembrano confutare questa percezione. Nel guardarmi indietro, personalmente, sento di aver inseguito questo disco per anni, nel disperato tentativo di metterlo dentro una casella, di risolverlo in qualche modo. Non ci sono ancora riuscito. È una cosa molto frustrante e credo che sia in questa frustrazione che, in qualche modo, risiede il senso più profondo della passione per la musica. Ma è comunque una cosa molto frustrante.
PS (1) questo testo è stato scritto in diverse versioni nel corso di sette-otto anni, e quindi potrebbe contenere stralci di cose che ho scritto e pubblicato in altri contesti (succede sicuramente per il primo capoverso, che è finito cinque anni fa in un episodio della newsletter su David Berman, ma forse anche in altri passi).
PS (2) volevo prendermi un secondo per unirmi al ricordo di un amico scomparso ieri. La sua straordinaria efficacia come organizzatore, e la sua bellezza di essere umano, mettono in qualche modo in ombra il fatto che per un certo periodo sia stato forse il migliore in Italia a scrivere di musica, e uno di quelli che più di tutti mi hanno influenzato. Nel salutarlo un’ultima volta gli chiedo scusa per l’infinità di roba che ho rubato dalle cose che scriveva. Ciao Teo.