La pagella del primo quadrimestre
alcuni dischi della prima metà del 2024 che mi porterò dietro nella seconda metà del 2024
Da qualche anno è aumentato il numero di articoli che a fine giugno stendono un recap delle migliori uscite dell’anno in corso. L’aumento è dovuto, direi, al fatto che questi articoli sembrano in qualche modo avere un impatto reale sui lettori delle riviste musicali online, e l’impatto è dovuto probabilmente al fatto che ascoltiamo più musica di quanta ne abbiamo mai ascoltata prima di oggi e che in mezzo alla giungla di entusiasmi della prima ora, recensioni, consigli di amici e quant’altro ci si trovi un po’ a corto di punti fermi, o peggio ancora a rimpiangere un fantomatico passato in cui la penuria imponeva un certo grado di qualità, come se tutti i gruppi degli anni ’90 fossero buoni quanto i Godheadsilo, o come se ai concerti dei Godheadsilo ci fossero 30mila paganti, o che so io. La puntata che segue si accoda vergognosamente a questo trend dei riassuntini e racconta di alcuni dischi, usciti nella prima metà del 2024, che mi porterò dietro nella seconda metà del 2024. Non sono necessariamente i miei dischi preferiti della prima metà del 2024, sono semplicemente dischi di cui sento il bisogno di parlare perché se n’è parlato poco, o di dire qualcos’altro rispetto a quel che è già stato detto. Ci tengo anche a dire che l’ordine di elenco è assolutamente casuale e che se un disco è prima o dopo un altro non significa che mi sia piaciuto di più.
Se qualcuno volesse rispondere alla mail e consigliarmi un disco o due, tra quelli che non sono in questa lista, mi farebbe piacere: magari c’è qualcosa che non ho ancora ascoltato e di cui non so di avere bisogno. Ci sentiamo nel secondo semestre.
ENGLISH TEACHER - THIS COULD BE TEXAS
Qualunque sia il segreto del postrock britannico, non voglio conoscerlo. Intendo dire: la ragione misteriosa per cui dopo anni di tentativi in giro per il mondo, con gruppi quasi sempre di buon valore che hanno tenuto accesa la fiamma del genere mentre la cappa di sfiga continuava ad addensarsi sopra la sua testa, per qualche motivo è stata la generazione dei vari BCNR/Black Midi/Squid a dare la stura a una nuova stagione del movimento. Non sono un fan particolare di questi gruppi: a volte fanno dischi ok e a volte no. Sta di fatto che nello strascico di questa cosa qualche volontà superiore ha deciso che il postrock va ancora benissimo, che si può ricominciare a pensarlo in maniera organica, come una vera e propria scena, e che in giro ci sono probabilmente talenti inespressi. Non posso saperlo per certo ma sospetto che sia per questa ragione che gli English Teacher hanno potuto esordire su Universal e con i riflettori puntati addosso. Il che non cambia la sostanza di un disco pop clamoroso (per capirci: li potete considerare ‘postrock’ se per voi gli Stereolab sono un gruppo ‘postrock’) e ultra-complesso in cui nessun pezzo è uguale agli altri ma tutti i pezzi servono all’insieme, e qui mi fermo per non sembrare uno di quelli per cui la cosiddetta ‘opera rock’ sia la miglior espressione di questa musica. Mettiamola così: se pensate che la cosiddetta ‘opera rock’ sia la forma più alta e complessa della musica indipendente è probabile che il disco degli English Teacher sia il vostro disco dell’anno. Se pensate che la cosiddetta ‘opera rock’ sia una delle più pericolose aberrazioni della musica indipendente, invece, diciamo che la penso come voi ma che per il disco degli English Teacher sono disposto a riconsiderare i miei paradigmi. Piesse: un altro tassello nell’ormai ricchissimo mosaico con cui Marta Salogni si sta rivelando una delle migliori teste dello studio di registrazione che si possa trovare oggi sul mercato.
BEN FROST – SCOPE NEGLECT
La discografia contemporanea contiene molto spesso questo genere di trappoloni per cui Scope Neglect è il primo disco solista di Ben Frost in cinque anni ma -all’atto pratico- tra dischi in comproprietà e colonne sonore è possibile avere musica nuova di Ben Frost ogni cinque o sei mesi. Il che non toglie che Scope Neglect sia stato recepito in giro come un appuntamento speciale, forse perché il disco è BELLO o non so per quale altro motivo. Dicevo, Scope Neglect è un po’ il punto d’arrivo di una cosa che quest’anno sembra andare fortissimo e che possiamo semplicistamente chiamare non-metal. Il non-metal è tutta quella sottocultura che prende un elemento a casaccio dal metal e lascia perdere tutti gli altri elementi e con quel solo elemento si mostra al pubblico nella speranza di passare a seconda dei casi per qualcuno che ha fatto una profonda riflessione sul minimalismo, o per un performance artist, o qualunque altra cosa. L’ultimo disco di Ben Frost è un prodotto del lato positivo di questo atteggiamento (che di solito produce schifezze, ma appunto siamo qua in attesa di essere smentiti); nel disco di Ben Frost co sono tracce che sembrano un singolo riffone metalcore (a me vengono in mente i Raised Fist) isolato e riprodotto finché non diventa teoria musicale pura. Che alla fine se si guarda alla cosa da altre coordinate è quello che facevano i Meshuggah nei tardi anni novanta ma senza doverci poi subire le pantomime e i pantaloni di pelle e i buzzurri ubriachi che urlano di fianco a te al concerto. Forse è uno sport relativamente impegnativo e che chiede un certo grado di dedizione, ma è veramente un bellissimo disco e una maniera nuova ed eccitante di guardare a una cosa che a forza di guardarla s’era scolorita.
OLYMPIA MARE – SEI ALMENO UN PO’ FELICE?
Tra le varie cose che amo ci sono i gruppi che dal nome si capisce come suonano e non so se questo includa davvero le Olympia Mare ma faccio finta che sì. Le Olympia Mare sono un side project delle In.versione Clotinsky, con l’aggiunta di Erica Lonardi (ex-Any Other, il cui disco nuovo è bello ma non è arrivato in top ten). E sono appunto un tentativo di suonare come la versione da spiaggia del disco K Records più scalcinato e inoffensivo che possiate avere a mente- è roba costruita su dei pattern dozzinali e su delle canzoni che ci sono e non ci sono e un’ingenuità lirica che a volte viene quasi quasi da vergognarsi ad ascoltare il disco, cioè -secondo ogni canone musicale che abbia un senso- uno di quei dischi che possono lasciarti completamente indifferente oppure farti innamorare come un sedicenne, e io mi sono innamorato come un sedicenne. Qui poi ci sarebbe da fare un discorso sulla fibra morale e sullo scrauso apposta, che è senz’altro un discorso sensato in prospettiva -voglio dire, abbiamo ascoltato così tanta musica scarna e ostentatamente debole da sentirci in qualche modo vaccinati, protetti e privi di inclinazione, e invece per qualche ragione ci caschiamo sempre.
SLEAP-E - 8106
Non siamo mica tanto distanti con il disco di Sleap-E, anzi è praticamente la stessa identica merda con Ty Segall e Courtney Barnett al posto di K Records e forse un pochino di appeal in più per quel genere di pubblico che si trova senza alcuna ragione plausibile si trova costretta ad andare a vedere la band dal vivo. Sleap-E di nome vero si chiama Asia Martina Morabito, il disco contiene tracce con titoli tipo Leave my bum alone e si sforza evidentemente di suonare più scrauso ed aggressivo di quel che sarebbe il talento naturale di Sleap-E, magari messo in mano a qualche testa musicale che ne capisca qualcosa di come funzionano i meccanismi della musica. È un complimento.
BIG|BRAVE – A CHAOS OF FLOWERS
Il nuovo disco dei Big|Brave vuol essere (basta guardare la copertina) una versione al negativo di Nature Morte, l’album con cui hanno sbancato tutto quello che c’era da sbancare lo scorso anno. È costruito sullo stesso ideale non-metal di cui parlavo nel disco di Ben Frost. Nel loro caso l’idea è più vicina a quello che faceva Stephen O’ Malley negli anni belli, e quindi questa vocazione design del suono grosso, sempre minimalista ma più legata al segno che all’esperienza d’ascolto in sé. Un territorio che il successo di Sunn (o))) e simili ha reso inflazionatissimo e quindi pericolosissimo. I Big|Brave se la cavano in fondo solo perché iniziano quando il metal è già finito e la loro musica sembra costruirsi sull’eco delle distorsioni che arriva dal fondo di una sala concerti deserta, o qualcosa del genere. È un disco molto intenso e troppo poetico, carico di orpelli e decadenza, ma anche questa cappa mistica da supermercato che lo avvolge fa parte del fascino -nel senso che ti trovi spesso a considerare la poesia, ed erano veramente decenni, come qualcosa che può aggiungere profondità alla musica.
CLUB DOGO – S/T
Ogni anno c’è un disco che forse non sai se è il migliore o nemmeno se è uno dei migliori ma è di sicuro quello che ascolti più di frequente e a cui in qualche modo continuo a tornare: il mio è il reunion album dei Club Dogo, assieme a quello dei Sandwell District di cui parlerò sotto. Non si tratta di un disco per cui nutrissi qualche aspettativa né tantomeno di un gruppo per il quale io nutra qualsivoglia affetto, ma d’altra parte questi dischi qui mica te li scegli. Credo sia corretto dire che è un disco di scarti, nel senso che soprattutto Guè in questo momento ha altre cose a cui pensare e probabilmente (alla faccia di Madreperla, comunque un grandissimo disco) si è messo nel cassetto un bel gruzzolo di idee old-fashioned che da solista non può più utilizzare. Il nuovo disco dei Club Dogo ha tante affinità, magari è una suggestione mia, con quello che il Colle fece con Adversus, ovvero limitare il campo dello scibile e tenere al minimo sindacale il livello tecnico e cercare di fare qualcosa che li porti più o meno ad osservare il loro tragitto con gli occhi di oggi e gli occhiali da sole di Chanel o il cazzo che usano questi qua per ripararsi dagli ultravioletti. È un disco molto legato a una certa idea primigenia e molto ricco, paradossalmente proprio per il fatto di essere cucinato con pochi ingredienti, e a cui magari è pure lecito guardare con un briciolo di sospetto. Non lo so.
LEE SCRATCH PERRY – KING PERRY
Lee Perry se n’è andato nel 2021 e la sua dipartita è stata una sorta di nota a piè di pagina nel grande libro del pop contemporaneo -quei personaggi di cui sì insomma ok ma non era già morto?, il che tutto sommato era pure comprensibile, al netto del fatto che il 90% la musica di oggi (a stare stretti) sia inconcepibile senza Lee Perry. Per la sorpresa di nessuno, negli ultimi giorni della sua vita stava lavorando a musica nuova assieme a Daniel Boyle: un disco di impronta dub ma incentrato sulle declinazioni contemporanee del genere, con un casino di duetti. Nell’opera complessiva di Lee Perry non è un album particolarmente significativo ma l’ultima traccia del disco si intitola Goodbye ed è, cronologicamente, l’ultima cosa registrata da Lee Perry prima di morire, e una volta che lo scopri fai fatica a tenere dentro il groppo.
CHARLI XCX - BRAT
Il successo di Kanye West nel pop contemporaneo è dovuto soprattutto alla musica di Kanye West, alla sua capacità di pensare una canzone pop in modi diversi da quelli in cui la canzone pop era sempre stata pensata prima di lui, di riuscire a mettere nel calderone alcune cose che prima di Kanye West non erano considerate parte del tessuto musicale emerso -e dopo di lui lo sono diventate. E ovviamente Kanye è un mezzo matto, nella vita vera intendo (non ho una laurea in psicologia, parlo in termini bonari). Una parte della sua capacità visionaria dipende, possiamo sospettare, dal fatto che vede il mondo in un modo proprio diverso da quello degli altri esseri umani. Questo ha contribuito in maniera fondamentale allo svilupparsi di una fondamentale sottotrama del pop statunitense, e quindi mondiale: le popstar matte. Un fenomeno che si è andato via via strutturando e complessificando fino ad una situazione attuale in cui un certo grado di psicosi nel pop sembra quasi inevitabile, con evidenti aberrazioni che coprono tutto lo spettro dello scibile. Così ad esempio negli anni venti coesistono appunto Kanye West, che è così avanti nel percorso da essere ormai diventato indecifrabile e -agli occhi di molti- sostanzialmente disumano, e situazioni mediatiche in cui ogni volta che il sistema produce una qualunque Sabrina Carpenter lo spirito del tempo sembra accoglierla come il punto d’arrivo di cinquant’anni di situazionismo. Tra i sottoprodotti di queste aberrazioni, di questo pop fringe, Charli xcx è stata in passato uno degli articoli più esposti, anche se a dire il vero il suo momento sembrava passato da qualche anno e il grande pubblico aveva deciso di affidarsi a cose tipo Dua Lipa (che nella mia testa, e a maggior ragione mettendo a confronto gli ultimi dischi di entrambe, sta a charli come le pseudoscienze stanno alle scienze, ma vabbè). Nel corso dei giorni trascorsi tra l’uscita di brat e oggi le cose sono finite abbastanza fuori scala, con un casino di gente che ha usato quella copertina verde come una sorta di bandiera e altre persone che hanno dichiarato il loro fastidio per il disco in un modo che personalmente mi è sembrato quasi eccessivo. Il che potrebbe indicare che forse brat è il grande disco identitario di quest’anno, quello su cui -contribuiscono senza dubbio l’esposizione massiccia e un progetto che si sta rivelando molto più serio di quel che appariva nelle premesse- sembra giocarsi la grande partita del pop di quest’anno. Vedremo un po’. Mi preme comunque segnalare che ad ogni nuovo ascolto il nuovo disco di charli xcx sembra contenere il doppio della roba che conteneva all’ascolto precedente.
THE SMILE - A WALL OF EYES
Ci sono due modi di guardare alla faccenda The Smile. Il primo è che questo sia un side project di valore scarso o comunque non così elevato, comprendente un paio di musicisti che con la loro band principale sarebbero in grado ancor oggi di definire il mondo della musica in una maniera che agli altri umani non è concesso nemmeno di sognare. E secondo me è un modo sbagliato di guardare alla faccenda. Il secondo modo è di considerare The Smile un uovo di colombo con il quale Yorke e Greenwood si possono permettere di togliere dalle balle tutto il cassetto di suggestioni e riflessioni e ingombranti teoremi poprock, suonare felici e mettere mano a musica che abbia più senso. Aiuta il fatto che abbiano imbarcato nel gruppo quello che a sentirli suonare assieme è il miglior batterista che possano sognare, e francamente i The Smile nella maggior parte dei momenti suonano come il gruppo di Tom Skinner, a cui incidentalmente partecipano Jonny Greenwood e Thom Yorke. Sia quel che sia, il primo disco dei The Smile mi ha rimesso addosso la fotta di ascoltare musica nuova creata da questa gente e il secondo disco dei The Smile ha fatto sembrare il primo disco dei The Smile una specie di schizzo in brutta copia di quello che i The Smile saranno da qui in poi.
EYE FLYS - S/T
Non c’è davvero sorpresa in questa cosa di mettere gli Eye Flys in questa lista. Sapevo che avrei amato il disco prima di ascoltare una sola nota del disco, un po’ perché li conoscevo e un po’ perché mi fido di Thrill Jockey (che in questa lista è presente con un paio di album e avrebbe potuto esserlo con un altro paio in tranquillità). Quando l’ho ascoltato per la prima volta, comunque, mi è entrata in testa un’espressione che per la mia vita di lettore di recensioni è stata molto importante, il BASSO TELLURICO. Era un’espressione molto usata nelle recensioni dei dischi di area noise/metal/core quando la mia dieta musicale era costituita di soli dischi di area noise/metal/core, un periodo che coincide con quello in cui mi sono più impegnato a imparare a scrivere di musica. In quel periodo, e in quel sottobosco, era palpabile un problema: bisognava trovare argomenti diversi per dischi che suonavano quasi sempre allo stesso modo. Qualcuno, non so chi e non so quando, aveva deciso di utilizzare la parola “tellurico” riferita al suono del basso, una parola che di per sé associata al basso non significa niente ma per associazione di idee poteva significare che il basso era capace di far vibrare la terra, o che il suono venisse dai visceri della terra o qualcosa del genere, e qualcun altro apprezzò l’uso di quella parola, e da lì in poi il BASSO TELLURICO iniziò a comparire ovunque. Mi sono immaginato qualche volta la scena di me che entro nel negozio di dischi, chiedo al negoziante un disco col BASSO TELLURICO e lui estrae la doppietta da sotto il bancone. Poi a un certo punto ho deciso, per semplificare ulteriormente l’analisi, che è giusto usare TELLURICO in riferimento a un suono specifico di basso, quel suono su cui si fondano molti dischi di area noise, fortemente debitori di AmRep ma più inclini a solleticare l’immaginario ultra-metal (Young Widows, Harvey Milk, Harkonen e tanti altri patrimoni dell’umanità))), e quindi insomma nella mia testa parte tutto da un equivoco ma che le circostanze hanno reso in qualche modo strutturale. Gli Eye Flys sono la quintessenza del gruppo con il basso tellurico: il disco ha una copertina stronzissima e stupenda disegnata da John Herndon (quello che aveva fatto TNT dei Tortoise). Sulla musica c’è veramente poco da dire, è quella roba noise lì, io continuo a pensare che la musica oggi non offra niente di più violento e cattivo a meno di non rivolgersi ad esperienze intellettuali di un certo tipo (tipo una certa disumanità progettata al computer) o alla musica strutturata per non avere struttura. Che sono entrambe cose belle ma non suonano impulsive come gli Eye Flys.
SANDWELL DISTRICT – WHERE NEXT?
Credo sia solo una mia impressione e che in realtà il fenomeno sia pienamente inquadrabile all’interno del flusso di coscienza del pop in senso lato, ma nel passato recente sono usciti tantissimi dischi che scontano in qualche modo una vicinanza eccessiva alla morte dei loro autori. Il caso più doloroso quest’anno è ovviamente quello di To All Trains, per quanto mi riguarda, ma non è il solo. Prendiamo ad esempio questa raccolta di Sandwell District, collettivo anglosassone attivo come band ed etichetta negli anni duemila, colonna portante della techno di quel periodo ed alfiere di un approccio minimal che per quanto ne so io non ha avuto eguali in termini di profondità. Abbastanza da ‘costringere’ il collettivo, tanto per dire, a buttar fuori un disco alla fine del suo percorso: una cosa a cui Regis e Function non avevano mai pensato davvero e che ai tempi mise dei paletti importanti anche nel mondo dei non-appassionati/militanti (tipo, appunto, io). Detto questo, Sandwell District ha smesso di operare quasi contestualmente all’uscita del disco, e nel corso degli anni le due teste principali del gruppo hanno pensato costantemente a prendersi del tempo per mettere insieme una raccolta per i posteri, che facesse in qualche modo da opus magnum. Le cose si sono iniziate a concretizzare dopo il Covid e il disco è stato pubblicato nel febbraio 2024. Disgrazia ha voluto che l’album servisse in qualche modo anche da epitaffio per la morte di Silent Servant, la cui morte era stata annunciata non più di un mese prima, nell’incidente domestico che aveva coinvolto anche The Soft Moon. E il disco, forse nei termini dell’ovvia oscurità del materiale con cui è compilato, si è ritrovato ad avere un impatto clamoroso nella mia testa, forse anche grazie a un certo carico di suggestione per la questione cronologica, o forse per la capacità oggettiva di suonare in un certo modo nel presente -l’inverno freddo agli sgoccioli, un periodo complicato, la musica in cuffia a manetta, non so. Sta di fatto che è il disco che ho ascoltato più spesso nel corso del 2024.
BETH GIBBONS – LIVES OUTGROWN
Del disco di Beth Gibbons erano usciti già diversi singoli (o comunque chiamiate ora quella cosa che a un certo punto qualcuno pubblica una canzone su un portale di streaming) prima di poter sentire il disco intero, e avevamo già il sospetto che sarebbe stato un disco grandioso. Sospetto che peraltro avremmo avuto anche se i singoli non fossero usciti. Per dire che una parte importante del disco di Beth Gibbons è sapere che Beth Gibbons c’è, esiste nello stesso piano di realtà in cui esistiamo noi, e ci dà occasione di rimediare a qualche leggerezza passata -non so se siete abbastanza vecchi per ricordarvi un’epoca in cui usciva il disco con Rustin Man ed eravamo tutti lì con la boccuccia ad anatra a dire che siii certo bellissimo disco ma non è che stiamo parlando dei Portishead. Dei quali, ancora oggi e secondo una certa versione del mondo, Beth Gibbons sembra una sorta di collaboratrice/cottimante in prestito). L’evidenza empirica ci dice altro: nessun membro dei Portishead, fuori dai Portishead si è manco vagamente avvicinato alla bellezza che ci è riuscita a dare Beth Gibbons fuori dai Portishead. E non stiamo parlando di scarsoni, sia chiaro: valga per tutti un disco dei Beak> uscito qualche settimana fa. Ma prendete Lives Outgrown, uno di quei classici dischi che a dispetto di essere tutti suonati da strumenti analogici potrebbero uscire tranquillamente per Hyperdub (intendo in astratto, tipo Kode9 che riceve una mail “sono una sconosciuta, ecco il mio disco, ti interessa?”. Non intendo un caso tipo che Kode9 riceve una mail “sono Beth Gibbons, ecco il mio disco, ti interessa?” e decide di impegnarsi gli ori della mamma per farlo uscire prima ancora di aver schiacciato play sulla traccia 1) (e senza voler ovviamente offendere Domino, l’etichetta che fa uscire in effetti il disco di Lives Outgrown, che è un pezzo di cuore). È un disco con dentro una quantità altissima di quella roba indefinibile che io associo ai miei dischi preferiti, chiamiamolo amor di musica o come volete voi. Quella sensazione che qualcuno avesse il bisogno viscerale di farti sentire il disco, “scusa, potresti ascoltare questi pezzi? Li ho registrati per evitare di impazzire”. Una cosa che Beth Gibbons potrebbe tranquillamente non avere, e limitarsi a pubblicare un’esecuzione di Gorecki ogni 5 anni invece di scriverne uno originale ogni 20 che ti strappa la carne dalle ossa mentre lei è già andata a bere al pub.
DUE COSE CHE NON C’ENTRANO
1 È in distribuzione il nuovo numero di Quants, rivista diretta dall’amico Federico Sardo ed edita dall’altrettanto amico Ama Communications. È un numero a cui tengo tanto, non solo perché c’è il mio primo articolo per la rivista, ma anche perché l’articolo parla di Steve Albini, e i ragazzi mi hanno chiesto anche di illustrarlo e di fare la copertina del numero (che è BELLISSIMA, voglio dire, c’è Steve Albini). Lo trovate a questo indirizzo.
Alcuni dei testi che avete letto sono stati pubblicati, in versione diversa e a volte contraria, sul canale Telegram che tengo da qualche mese. Il canale si chiama Nuova Musica il Venerdì. È un canale con delle regole stupide: lo aggiorno solo il venerdì e lo uso per scrivere il mio parere sui dischi che escono, rigorosamente al primo ascolto, rigorosamente di getto. Vuol essere una specie di esperimento letterario in progress che parli del formarsi del gusto musicale e del modo in cui un disco impatta sulla vita di tutti i giorni, implica un margine di errore altissimo sulle valutazioni (esempio recente: questo fine settimana ho parlato in termini estremamente positivi del disco dei Been Stellar, che poi ho riascoltato finendo per odiarlo a morte). Se volete iscrivervi al canale potete farlo cliccando qui.