(nota di servizio: come al solito ho scritto di getto e senza rileggere, sarà pieno di strafalcioni. mi scuso prima di cominciare.)
Un paio d’anni fa un tizio mi contattò perché stavano facendo un programma radio in cui cercavano di eleggere la peggior canzone di tutti i tempi, e mi aveva chiesto di dare il mio voto. Era la prima volta che qualcuno mi faceva questa domanda, e com’è ovvio non ho preso la questione alla leggera -per essere più esplicito, ho passato almeno cinque ore a scandagliare la memoria personale e collettiva (internet, intendo) a cercare di capire se ci fosse una canzone che potesse essere peggiore di quella che mi era venuta in mente così d’acchito (YMCA dei Village People, non voglio fare il misterioso, ne ho parlato anche in un precedente episodio di questa newsletter). Ovviamente non ne ho trovate, ho messo giù in linea di massima una storia della canzone e l’ho raccontata online.
Come tutti sappiamo YMCA ha una origin story tutt’altro che stupida (se non vi siete mai interessati alla cosa, potete immaginare YMCA come una sorta di inno alla cultura gay del periodo con un bel gancetto al predicare/razzolare della morale cattolica, in un testo che i Jello Biafra avrebbe potuto scrivere più o meno uguale l’anno successivo). Non sono la bellezza o bruttezza intrinseca di una certa canzone, né tantomeno le intenzioni di chi l’ha scritta, a definire la sua bellezza o bruttezza di lungo periodo. Anzi, per tagliare un po’ con la mannaia i concetti si può ipotizzare che la bellezza intrinseca del pezzo, quella che viene definita dall’analisi critica, è importante solo nel momento in cui il pezzo non entra a far parte del patrimonio di una collettività, e quando ci entra le questioni di contorno (quanto fossero nobili gli intenti del musicista, quanto avesse copiato un certo giro di chitarra, quanto fosse in grado di suonare il suo strumento, eccetera) diventano orpelli di una storia in cui i punti d’interesse sono decisamente altri. Questo territorio è costellato perlopiù di eventi virtuosi, perché la musica è una cosa bella e tende a funzionare molto spesso in maniera positiva. Prendiamo una canzone completamente a caso, magari una canzone che a me personalmente faccia schifo, diciamo ad esempio un singolone tardivo dei Coldplay: non ha così tanta importanza che io soffra fisicamente ogni volta che sento Higher Power, nel momento in cui cinquantamila persone urlano il testo di Higher Power al concerto dei Coldplay, e nessuno, per quanto ne sappiamo, ha usato Higher Power per torturare i prigionieri in una base militare (è successo anche questo). Oppure ci sono canzoni che magari nascono meh e poi diventano grandi pezzi di cultura perché qualcuno decide di metterle dentro a un film o a uno spot pubblicitario, o quel che vuoi. Esempio facile: non sarei tutto ‘sto fan di Love Story di Taylor Swift ma non ho potuto che innamorarmi del modo in cui viene usata in quella scena di The Bear, e da lì è impossibile non diventare fanatici della canzone in sé. Ci sono canzoni insulse che sono andate a musicare proteste di piazza o pezzi di storia di partiti politici e associazioni e così tanti altri contesti virtuosi che è impossibile dar conto di tutto.
Poi ci sono canzoni che hanno minor fortuna, o forse hanno troppa fortuna e quindi diventano qualcosa di -non so- inutile, ridondante, quello che vuoi, e che in qualche misura nella mia testa finiscono vittime del loro stesso successo. Sono quelle canzoni che riempiono i livelli da 3 a 10 di quella che io chiamo Scala Cric
(la Scala Cric è un sistema di misurazione della musica fastidiosa, ovviamente autocostruito. Va da 0 a 10 e si applica ai pezzi molto conosciuti, misurando per ognuno la voglia che ti fa venire di prendere in mano un cric e spaccare tutto quello che hai intorno. Immaginate lo 0 della scala cric come la pace assoluta dei sensi, le canzoni che passano in radio e magari non ti piacciono ma non ti suscitano assolutamente nessun fastidio, tipo che ne so, i primi singoloni dei Tiromancino, passano e vanno via, nessuno s’incazza, sai che per due settimane non dovrai sentirli, tutto a posto. 10 è Michael Douglas in Un giorno di ordinaria follia, per capirci. I miei 10 sulla Scala Cric sono canzoni tipo Io Vagabondo dei Nomadi o i tre singoli della morte di John Lennon (Imagine, Give Peace A Chance e la canzone di Natale), subito sotto cose tipo Il cielo d’Irlanda (nel periodo di massima esposizione era arrivata al 9, poi fortunatamente ha smesso di essere passata con insistenza per le radio, e un paio d’anni fa ho scoperto che Fiorella Mannoia aveva iniziato la carriera come stuntman. Stuntwoman. Vabbè. oggi sta sul 6), Rewind di Vasco Rossi, No Woman No Cry, Blitzkrieg Bop, Smells Like Teen Spirit. Quindi canzoni anche molto belle e di artisti a cui devo anche la vita ma hanno acquisito questa capacità di crearmi malumore istantaneo e voglia di rompere cose.
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YMCA, purtroppo, non è nemmeno misurabile sulla Scala Cric. Non appartiene alla categoria del fastidio. YMCA è entrata a far parte di un novero più stretto di canzoni che potremmo definire LA MUSICA DEL MALE. È una lista molto contenuta di pezzi che hanno travalicato il senso della musica pop e sono entrati a far parte di un vero e proprio stile di vita, ci tengo a dire uno stile di vita ALTRUI con cui né io né (sono sicuro) chiunque stia leggendo in questo momento ha mai voluto avere a che fare. Come mi era già capitato di scrivere qui sopra, il numero di volte in cui ho ascoltato YMCA nella nostra vita è impressionante, credo che si avvicini a due settimane (intendo, due settimane intere di 16 ore in cui ascolto solo e sempre YMCA) o simili. E nessuna di queste volte ho mai avuto la minima intenzione di ascoltarla. YMCA potete sentirla nella scaletta di tutte le feste a cui non volete essere, nei mixoni discofunk delle radio brutte dopo le nove di sera, a tutti gli eventi aziendali, in tutti i team building, in tutte le riunioni delle aziende che fanno vendite piramidali. A nessuno verrebbe in mente di ascoltare YMCA per godere della musica, nemmeno dal punto di vista del trash, perché ogni singolo play di quella canzone si porta ormai dietro tutto l’immaginario di gioie aziendaliste che ha musicato per anni e anni. YMCA non ha numeri pazzeschi sui portali di streaming, perché nessuno la vuole ascoltare, ma tutti devono farlo, in uno strano automatismo che si autoalimenta. Questa è LA MUSICA DEL MALE, appunto. La capacità del pop di inserirsi all’interno del pensiero occidentale, o come diciamo spesso di *funzionare*, è capace di creare un’ulcera nel nostro modo di stare al mondo e permettere l’ingresso di batteri, nematodi e altre schifezze dell’insalubre. Quando dico che YMCA (o quale altra per lei) è la peggior canzone della storia della musica intendo che la capacità distruttiva di canzoni come YMCA non ha niente a che vedere con l’astio furioso per l’AOR.
E ovviamente YMCA non è la sola: fa parte di un novero stretto-ma-esistente di pezzi funesti contro cui ci troviamo a combattere più o meno ogni giorno. La maggior parte di queste canzoni le ho ereditate dalle generazioni precedenti alla mia, e quindi ad esempio conoscevo We Are The Champions prima di sapere chi fossero i Queen, così come conoscevo Disco Inferno prima di sapere chi fossero Trammps. E avevo già in mente che We Are The Champions è la canzone che si ascolta o si canta quando qualcuno vince qualcosa e questo vale tanto per la gara di rutti alla festa della birra di Grattacoppa quanto per l’oro ai 100 metri alle Olimpiadi. Ma chiunque si trovi a dover diventare un cultore dei Queen fa uscire molto in fretta We Are The Champions dalla sua top ten, e parliamo di gente che comunque nel tronfio ci sguazza. Ma ogni generazione deve fare i conti con le rovine ereditate dal proprio passato, con i livelli di inquinamento dell’aria e con quelli del suono. A volte mi domando quanta colpa possa darmi per non essere in grado di combattere un mondo in cui per andare in bolgia a una festa della parrocchia qualcuno suona ancora YMCA a tutto volume, e probabilmente poco.
A quanto riesco a ricordare c’è solo una canzone uscita dopo il 1990, cioè da quando sono testimone diretto, che è riuscita a diventare parte de LA MUSICA DEL MALE. A un certo punto stava per entrarci Song 2 dei Blur, ma forse è proprio il fatto di non esserci riuscita a raccontare con precisione il genio di Albarn e soprattutto Coxon: per cinque anni è stata sinonimo di gioia pura alle feste, di entrare in pista e non scomodare nessuno, ma c’era qualcosa che la rendeva inadatta ai contesti istituzionali -le chitarre? La doppia batteria? Non lo so- e oggi fa parte di un immaginario elitista con cui molti non si vogliono mischiare, assolutamente dentro la Scala Cric (direi non oltre il 2, dipende dallo stato d’animo). Perfino Clint Eastwood dei Gorillaz è riuscita per qualche ragione a non farsi risucchiare dal gorgo aziendalista di certe pubblicità di banche e assicurazioni. L’unica canzone che è entrata davvero a far parte dell’Abisso, delLA MUSICA DEL MALE, è Hallelujah di Jeff Buckley. No, Hallelujah non è più di Leonard Cohen. Leonard Cohen non è nemmeno più un incolpevole coprotagonista di questa incresciosa vicenda, quella che ha portato Hallelujah a tutte le selezioni dei talent show, alle celebrazioni matrimoniali con pretesa di paganesimo, ad essere il collante di ogni evento legato al bel canto e in cui sia stato eliminato obtorto collo ogni bisogno di musica. Eppure ricordo i primi passaggi di Grace, il primo vero ascolto concentrato di quella canzone a volumi insensati sullo stereo di casa in silenzio assoluto e forse perfino annichilito dalla bellezza che usciva dallo stereo, una bellezza che per qualche motivo è diventata un percolato putrido che ha infettato tutta la musica. Oggi Hallelujah non è più misurabile sulla Scala Cric: la sua esecuzione è un atto politico, puro e semplice. Ok, no, tutto questo a Leonard Cohen non sarebbe piaciuto, e di sicuro non piace a nessuno di noi. Ci dobbiamo stare, è un po’ come il riscaldamento globale: è già successo, non c’è il modo di tornare indietro, dobbiamo fare del nostro meglio per limitare i danni e ingegnerizzare la catastrofe nella speranza che etc etc.
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Scrivo tutto questo perché ieri stavo cazzeggiando come molti italiani su RaiPlay, mi guardavo la coppa Davis e mi sono reso conto improvvisamente che abbiamo, forse per la prima volta in quasi trent’anni, un nuovo membro delLA MUSICA DEL MALE, un pezzo che non appena risuona in pubblico (e risuona tanto, sempre, in maniera direi inarrestabile) riesce a mettere insieme tutto il peggio del pensiero contemporaneo -ultraliberismo, bisogno di sopraffare i nostri simili, meritocrazia, ansia della performance, sindrome dell’impostore e quindi per contrappasso cultura della vittoria, aziendalismo e tutto il pacchetto, come e più di qualunque altro pezzo che LA MUSICA DEL MALE si sia beata di cullare all’interno delle sue spire. Whatever It Takes degli Imagine Dragons è arrivata in punta di piedi con quell’aria sbarazzina da blockbuster di una stagione ed è rimasta, timida e risoluta al contempo, seduta in disparte nell’attesa che i pozzi si avvelenassero da loro. E oggi, senza che gli Imagine Dragons abbiano mai dato l’impressione di voler davvero far parte del mondo della musica, Whatever It Takes è diventata un grattacapo di dimensioni colossali. Ogni volta che risuona in una platea (diocristo se succede) o a un evento fieristico/aziendale/piramidale (diocristo se succede) sentiamo i tentacoli delLA MUSICA DEL MALE sfiorare i nostri polpacci in cerca della sua preda. Ci sentiamo pertanto in dovere di fare le congratulazioni alla band: siete entrati nell’immaginario musicale dell’Occidente, sicuramente dalla parte sbagliata, ma state tranquilli: nessuno riuscirà a cacciarvi da lì.