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“…anche se poi, per i Tim Yohannan de noantri (gli improvvisati “sociologi” giovanilisti per cui il metallo e gli skateboard sono una certezza e l’italiano un’opinione) Henry Rollins è TROPPO MASSICCIO. In realtà è solo un nazi mancato che ha letto i risvolti di copertina dell’opera omnia di Nietzsche, capendone a malapena il prezzo.”
The Groovers, gennaio 1998
È abbastanza acceso il dibattito in merito al fatto che il formato album sia più o meno destinato a morire, “album” inteso come generica raccolta di canzoni che dura, diciamo, dalla mezz’ora in su. Le ragioni sono abbastanza note: il tritacarne dello streaming rende impossibile o quasi sopravvivere per i gruppi che pensano a se stessi e alla loro musica in termini di “album” e conviene molto di più orientarsi su un modello economico basato su un continuo flusso di uscite, un singolo e poi un altro e poi un altro, in modo da aumentare l’engagement e tutto questo genere di cose. Saranno senz’altro discorsi sensati. Io, che non ho alcuna esperienza da insider, posso mettere sul piatto i ricordi di un periodo nel quale il formato CD aveva reso inconcepibile l’idea di “singolo” -i costi di produzione di un CD da 60 minuti erano più o meno gli stessi di un CD da 12. Cos’è cambiato nel frattempo? Tutto e niente. Oggi, ti risponde chi ne sa a tronchi, la musica viene ascoltata in un modo diverso, con una soglia d’attenzione molto più bassa, eccetera. Io risponderei che saltuariamente escono dischi-elefante alla Donda, che sfiorano o sfondano le due ore, e fanno parlare di sé in maniera piuttosto continuativa. Risponderei anche che questo è reso possibile dalla tecnologia e dal mercato che secondo quelle analisi renderebbero inconcepibili queste opere dal minutaggio sterminato, perché pubblicare un disco di quattro minuti in streaming ha più o meno (immagino) lo stesso costo che ha pubblicare un disco di due ore e mezzo, che invece in CD avrebbe avuto un costo diverso. E quindi il futuro è l’album monumentale di tre ore, che in vinile avrebbe comportato l’uso di 4 LP? Mi azzarderei a dire di no. Ma un album monumentale di tre ore non è mai stato così facile da realizzare e distribuire come oggi. Metteteci che le tecnologie per registrare la musica hanno avuto un’ovvia evoluzione e che oggi non è impossibile, ad esempio, costruire uno studio casalingo in cui registrare la propria musica a costi estremamente contenuti. Questo significa che tutti gli studi di registrazione sono destinati a chiudere da qui a qualche anno? Naturalmente no. Dicevo: è un mondo complesso. Il bisogno di celebrare le morti e le rinascite è collegato al bisogno di sapere che viviamo in tempi eccezionali, che alle prossime olimpiadi qualcuno batterà il record mondiale dei 200, che venerdì prossimo potrebbe uscire in streaming un disco che ti spazzerà via la vita peggio che A Love Supreme, e via di questo passo.
Questa complessità si estende alla mia specifica sfera di interesse, lo scrivere di musica. Un genere letterario che nell’ultimo ventennio, a leggere le analisi, ha cambiato pelle una decina di volte, e ad ogni cambio di pelle ci si è affrettati a celebrare il funerale. Ho iniziato a scrivere nella seconda metà degli anni novanta. Mandai il mio primo articolo ad una fanzine usando il fax del tabaccaio del mio paese, spendendo una cifra con cui dodici anni dopo avrei potuto volare a Helsinki (sovrattasse e assicurazioni varie escluse). A quei tempi c’erano ancora le fanzine, quelle di carta, stampate grazie a qualche fotocopiatrice compiacente e distribuite alla bell’e meglio. Quando arrivarono le prime web-zine si pensò subito che stampare su carta fosse un criterio completamente privo di senso. E man mano che divennero più serie e professionali si capì che le webzine avrebbero sostituito anche le riviste professionali, perché insomma vuoi mettere la comodità?. Poi arrivarono i blog, che erano più facili e non avevano bisogno del webmaster, e si capì subito che avrebbero sostituito le fanzine. E poi arrivarono i social e si capì subito che avrebbero distrutto i blog, e poi si iniziò a parlare dei contenuti multimediali e lì bisognava buttare tutti i soldi dell’editoria, il tutto dopo una breve fase in cui tutti erano convinti che il futuro della stessa sarebbe stato una cosa che veniva chiamata longform. Oggi si investe più che altro in newsletter (ma già meno che due anni fa) e podcast e canali twitch e pagine instagram perché lì sta il futuro o comunque il presente.
Basterebbe togliere di mezzo la questione economica. OK, forse non ci sono grandi guadagni in vista ad aprire oggi un blog, ma lo si può fare. Con un esborso pari a zero Euro (al cambio odierno fanno zero Dollari americani e zero Sterline inglesi) e la possibilità di far leggere il tuo articolo dall’altra parte del mondo, un minuto dopo che hai finito di scriverlo. Se pensiamo a questo genere di cose nei termini di incasso e di guadagno, probabilmente non se ne viene fuori. Se ci pensiamo in termini di potenzialità, è una delle cose più straordinarie a cui io -che ho iniziato a leggere di musica nelle riviste in bianco e nero che portava a casa mio fratello- possa pensare. Ma anche quelle riviste continuano ad esistere, in una forma molto simile a quella di allora. Perché?
(Ho una risposta, poi la dico, ma qui mi serve di mettere una specie di pausa scenica al posto di dieci righe che al momento non ho voglia di buttar giù)
Ho iniziato a scrivere su Rumore nel 2013. La rivista aveva appena attraversato il suo primo e unico cambio di proprietà; il nuovo direttore s’era convinto a prendere qualche firma nuova. Era una scommessa persa in partenza. Le riviste avevano imboccato da tempo la strada dei boschi accanto al paese dove vanno i gatti domestici a morire lontano dagli occhi di quelli che li hanno amati. La colpa di questa fine ignominiosa, a quei tempi, era ancora imputata alle riviste stesse e alla loro incapacità di rimanere “sul mercato”. A parlare in giro con gli analisti, ognuno sembrava avere una soluzione infilata nei pantaloni per evitare una fine già scritta: trasformarle in saltuari numeri monografici di lusso, distribuirle solo via pdf/ebook, toglierle dal circuito delle edicole, investire tutto sulLA QUALITÀ e cose simili. Nei dieci anni successivi la fine delle riviste di carta era sempre più imminente, e per diverso tempo mi sono sentito di scrivere con la spada di Damocle sul coppetto. Ricordo mail arrivate in redazione di gente che annunciava l’addio dopo la copertina a Calcutta (intervista mia, doppia sofferenza) o a Salmo; ricordo qualcuno che minacciò di smettere di comprare se non avessero tolto la rubrica a tizio e a caio, e via di questo passo. Rumore è rimasto in edicola. La sopravvivenza della rivista si può imputare a tanti fattori che compongono un quadro complesso e su cui non mi azzardo a mettere il becco. Posso giurare sulla dedizione e sulle capacità dello staff, ad esempio. Posso giurare sulla dedizione di una parte dei lettori, che hanno continuato a comprarla nel corso dei decenni. Sul resto non m’intendo, e così da un po’ di anni a questa parte ho deciso di raccontarmi una versione ipersemplificata di tutta questa cosa: Rumore continua a uscire perché c’è un gruppo di persone che vuole farla, e c’è un altro gruppo di persone che vuole leggerla. Questo bisogno fisico di contatto, unito a lavoro e capacità e probabilmente a un bel po’ di fortuna, ha permesso alla rivista (alle riviste) di sconfiggere una profezia inesorabile, o di scoprire che la profezia era sbagliata o comunque troppo catastrofica. Nemmeno le fanzine sono morte, anzi -si stampano più facilmente, le puoi pure distribuire via internet, boh. Certo, tutte queste cose impongono un presente nel quale il nuovo numero di un mensile musicale genera un fatturato di un certo tipo. Ma d’altra parte io leggo di musica da un sacco di tempo, e i direttori piangevano miseria anche a metà degli anni novanta.
Scrivere per la mia rivista del cuore mi mette in una posizione particolare. Non è come diventare titolare della squadra per cui tifavi da bambino e non è come fare il lavoro che hai sempre sognato, ma ci sono elementi di tutte e due queste cose. A volte mi sento come se avessi firmato un contratto per il quale ogni 30 del mese sono obbligato a consegnare un numero di battute che verranno usate per imprigionarmi all’interno della mia adolescenza per altre quattro settimane. A volte è meraviglioso, a volte fa veramente schifo -come un lavoro vero. Dico questo: quando arriva la busta col nuovo numero di Rumore (indirizzata all’ufficio dove svolgo il mio vero lavoro, perché nella vita è importante creare le condizioni che ti aiutino a tenere sempre la crestina bassa), provo sempre una certa eccitazione nell’aprirla e sfogliarla e guardare la copertina. Da qualche giorno trovate in edicola il nuovo numero di Rumore. È un numero speciale perché celebra il trentesimo anniversario della rivista, arrivata in edicola per la prima volta nel febbraio del ’92, in copertina i Red Hot Chili Peppers. Ha deciso di festeggiare in grande: uno speciale di trenta pagine in cui trenta persone diverse, che scrivono o hanno scritto su Rumore, raccontano una storia diversa. A ciascuno un argomento. I collaboratori più recenti si lanciano in analisi critiche legate al trentennio di musica che la rivista ha attraversato; quelli più vecchi hanno il permesso e il dovere di srotolare aneddoti e curiosità riguardanti il passato della rivista. Alcuni sono ai limiti del commovente. Rossano Lo Mele racconta di alcune copertine controverse della rivista, e in generale del mestiere di fare una copertina, e del mestiere del fare una controversia. Claudio Sorge racconta della prima copertina, della nascita della rivista, eccetera. Carlo Bordone racconta di quella che forse è la più famosa stroncatura degli anni novanta, quella ad OK Computer dei Radiohead. Il mio preferito è quello di Sara Poma, ex collaboratrice, che ripercorre l’incidente con Death Cab For Cutie e Narrow Stairs a una quindicina d’anni di distanza. Marco Pecorari e Sergio Messina celebrano sulle loro pagine. C’è un ricordo di Marco Mathieu, a cui personalmente devo la passione per i Korn e il crossover di quegli anni -e quindi il mio contributo allo speciale, che s’intitola Nessuno voleva essere Fred Durst a parte forse Fred Durst e parla della fine del crossover. Così, giusto per la cronaca.
Quando passeggio in giro per la città coi bambini mi trovo spesso a pensare, come credo tutti i miei coetanei, a che brutta fine abbiano fatto le edicole. Le poche che continuano ad alzare la serranda la mattina sono costrette a vivere nella percezione collettiva d’essere l’ectoplasma di loro stesse, di quel che erano quando ancora la società le considerava una parte fondamentale del paesaggio urbano. I bambini le guardano e non le vedono nemmeno, come i negozi di cianfrusaglie con sopra le scritte in cinese. La mancanza di stupore nei loro occhi è perfettamente spiegabile e forse perfino salutare -faranno molta meno fatica di quella che ho fatto io a trovare del porno di qualità- ma mi fa comunque un po’ di tristezza. Così ho approfittato dell’ennesimo gancio del calendario per celebrare, infilarmi all’edicola di Piazza Caduti e comprare una copia in più della rivista. Un vezzo.