Qualcuno di voi sicuramente ricorderà la gloriosa epoca delle cascate di prosciutto. Non so come sia successa di preciso, intendo l’epoca: dalla periferia dell’Impero ho potuto solo assistere alla sua escalation, e alla fine drammatica. Una roba da libro di Orwell. La mia idea sulla storia: qualcuno, a qualche buffet, pensò che sarebbe stata una buona idea non disporre il prosciutto nella battilarda o (peggio) nella fiamminga ma di lasciarlo penzolare da un piatto rialzato. Era il 1981 o il 1982. Ronald Reagan era già presidente degli Stati Uniti, Silvio Berlusconi aveva aperto il primo canale commerciale italiano. Il prosciutto aderiva alla superficie del vassoio e s’incollava col grasso alle altre fette, a creare un effetto scenico che dopo anni di un determinato tran-tran sconvolse la scena dei matrimoni e degli aperitivi aziendali del periodo. Giorgio Gaber non aveva ancora inciso Destra-Sinistra, Nuti non aveva ancora girato Caruso Pascoski, ma era già chiaro il simbolismo turbocapitalista del prosciutto e del culatello, i cui colorati rosé (le affettatrici elettriche dell’epoca, probabilmente di nuova generazione, tagliavano più sottile di quanto l’uomo avesse mai potuto sognare) e la cui patina di grasso scintillavano del brutale liberismo di quegli anni, fotografati con le macchine Kodak usa-e-getta che in quel periodo andavano di moda. L’immagine e l’immaginario si rincorrevano a vicenda, dando il via a un’escalation che -forse- mostrava già d’essere fuori controllo ma ben s’adattava all’idea di pensiero binario 0-1 dell’epoca digitale in arrivo, un’escalation di composizioni sempre più ardite e poderose: fontane a due o tre livelli che si gettavano nel tavolo con ondate di prosciutto, statuette rinascimentali foderate di San Daniele tagliato fine. Per qualche motivo i caterer e i designer d’arredo del periodo non riuscirono ad intuire il lato pacchiano di queste lenzuola di prosciutto crudo, o forse all’epoca il concetto di pacchiano non si era ancora evoluto in quello che è oggi. Sta di fatto che questa immaginaria competizione darwinista, in cui sarebbe sopravvissuto solo l’autore della più faraonica e dissoluta composizione di prosciutto 3D, andò avanti per almeno un lustro. Avrebbe potuto durare in eterno? Probabilmente no. È stato bello vederlo succedere? Nemmeno.
Poi qualcuno ha deciso di smettere, e anche qui è successo come nelle più classiche bolle speculative. Così, di punto in bianco. Qualcuno riuscì a vedere la realtà per quello che era, tipo Roddy Piper che s’infila gli occhiali da sole, e prese una decisione di autorità: al suo banchetto non ci sarebbe stata nessuna cazzo di cascata di prosciutto. Per i contemporanei la cosa ebbe un effetto devastante. Fu come se qualcuno da fuori avesse tirato un gavettone di realtà dentro la stanza, imbrattando tutti i commensali, che per la prima volta dal 1983 tornarono a casa da un buffet senza ditate di grasso sul vestito. D’improvvisamente i banchetti tornarono orizzontali e vennero presi d’assalto da una concezione funzionalista del cibo, a cui tutti aderirono senza l’ombra di un rimorso (a parte ovviamente gli oligarchi russi e altre figure analoghe, che s’erano appena affacciate alla scena e non vedevano per quale motivo dovessero adeguarsi all’esoterismo folk della cucina locale). Tornarono a rivedersi le battilarde, magari con un prosciutto scavato e il coltello da macellaio per tagliarlo più grosso e/o immaginare un finale splatter. La sbornia funzionalista durò per tutti gli anni novanta e una buona parte dei duemila, fino all’avvento del digitale terrestre e allo strapotere dei programmi di cucina: avanguardie culturali in cui normali cittadini avrebbero finalmente anelare di essere inclusi in ecosistemi massacranti come quelli delle cucine, in cui la libertà individuale e la richiesta di condizioni lavorative decenti erano considerate peggio che avere la forfora. In questa fase gli chef hanno ri-assunto faticosamente il controllo del mercato, iniziato a dipingersi come artisti e dato sfogo alla loro creatività per riconcepire spazi della messinscena che rimanessero orizzontali e inglobassero le conquiste dell’epoca funzionalissima, ma permettessero anche di giustificare la loro educazione anni ottanta di esteti del cibo, magari senza sbattersi a pulire le interiora. Così la società occidentale conobbe nuovi modi di impiattare la frittata con gli strigoli e di tagliare i crescioni alle erbe; modalità inedite e avventurose che aspiravano alla stessa spiritualità posticcia che aveva decretato il boom di yoga, astrologia, tisane e narghilé. I fanatici di indierock hanno dimestichezza con questo approccio ibrido, il revivalismo brutale fermamente convinto d’esser contemporaneo, che conta soprattutto sulla gentilezza del prossimo per non essere sgamato -lo stesso approccio che ci ha impedito di trucidare pubblicamente i responsabili del ritorno dello shoegaze, per dirne una, e che ci fa saltuariamente considerare l’idea di comprare una pizza gourmet surgelata al Lidl. Dell’epoca precedente è rimasto poco o nulla: al massimo qualche foto di cascate di prosciutto in giro per le pagine facebook/instagram a tema, costruite per massimizzare la presa per il culo dei gusti estetici dei nostri avi. Come se i nostri fossero migliori, come se avessimo imparato dai nostri errori, come se un bosco verticale sia meno pacchiano di un buffet verticale. Tutto questo per dire, o più esattamente per non dire, che l’ossessione per il passato è sicuramente dannosa ma non è che l’ossessione per il presente o il futuro siano proprio sanissime. È in quest’ottica che potete leggere l’attuale diffidenza in nuce (della critica, e anche la vostra, siate onesti) per l’ormai bolsissimo formato pop-opera che va (ancora per poco) di moda, quello dei dischi realizzati con 34 produttori, 86 turnisti, 22 generi musicali diversi, 19 featuring e 11 bonus track nell’edizione Plus Deluxe in uscita tre settimane dopo la versione basic: sembra finalmente arrivato il momento in cui quelli che fino a dieci minuti prima erano grandi visionari si trasformano in cascate di prosciutto.
(la presente è la versione molto espansa di una recensione dell’ultimo disco dei Lowertown, uscito su Ravenna&Dintorni di questa settimana)