Guardando le cose dal punto di vista intellettuale, The Armed è un progetto piuttosto interessante e si va ad inserire dentro ad un’ideologia della mutazione che sta permeando, in maniera molto lenta ma forse per certi versi inesorabile, nei gruppi di musica suonata. È un carattere mutuato dall’hip hop e che ha contagiato il pop emerso: l’idea che un disco possa venire realizzato mettendo assieme tantissimi contributi esterni, mescolando quanto più possibile le carte e buttando su un’accozzaglia di premesse tutte diverse una dall’altra. Il fatto che oggi sia di gran lunga la visione predominante non significa che lo sarà per il resto della storia umana, ma per oggi è di gran lunga il modo più proficuo di fare musica. Il principe di questa visione è probabilmente Kanye West, quello che per primo l’ha portata alle estreme conseguenze (se accettiamo che Jay-Z ed Outkast siano quelli che l’hanno esaltata nella sua declinazione hip hop, Kanye aveva il genio che serviva per portarla allo step successivo, buttando sul mercato opere che univano con la massima tranquillità popstar sputtanate e produttori di elettronica sperimentale semisconosciuti, in un flusso assolutamente coerente con se stesso). I dischi di Kanye tra la fine degli zero e l’inizio dei dieci erano così clamorosamente migliori del resto che tutti sono saliti a bordo di questa ideologia -quasi nessuno aveva il suo genio ma molti avevano abbastanza soldi, o abbastanza determinazione, o abbastanza fede per far funzionare le cose. Così quest’idea dei dischi pop intesi come visioni in grande dei dischi hip hop è diventata il gold standard della musica odierna, il metro di misura del bello.
La musica suonata è entrata inevitabilmente in crisi. Molti la confondono con una crisi del rock’n’roll, e quindi ne confondono le cause -secondo molti intellettuali del settore è seriamente dovuta alle premesse misogine, suprematiste e reazionarie del genere (“mi manca Benito Mussolini, comprerò una chitarra”). Ma più ragionevolmente può farsi risalire a una questione di consuetudini e sistemi di produzione la cui efficienza è ormai messa in discussione. Nel senso che il disco di una rock band è il prodotto finale delle idee, delle capacità e del budget di quattro persone che si mettono assieme, e nelle condizioni odierne questo tipo di mentalità non sembra in grado di competere con dischi che vengono sfornati con continuità impressionante mettendo insieme il lavoro di 60/70 professionisti senza battere ciglio.
Oddio, è vero che questa mentalità dell’accozzaglia creativa stia entrando in crisi, e che questo è sotto gli occhi di tutti, ma immagino che dovremo aspettare qualche anno per liquidare gli strascichi. Il fatto è che ultimamente sono pure le sacche di resistenza all’interno della musica suonata (le band, diciamo così) a cercare di mettersi sulla striscia di questa ideologia. E quindi negli ultimi anni si sono viste alla ribalta diverse soluzioni ibride che vanno a cercare di mettere una pezza a questa disparità degli assetti. La stessa Taylor Swift è un’espressione di questa mentalità, in fin dei conti (Taylor è storicamente una popstar del suonato, del country e del pop, ma la sua strategia artistico-commerciale è impostata su una serie di premesse così volatili che da 1989 in poi è assolutamente impossibile sapere se il suo prossimo disco sarà funk, vintage-disco o indiefolk). Ma ovviamente gli esperimenti più ineressanti succedono fuori dalle stanze in cui è necessario macinare degli streaming per stare in piedi. Il caso più emblematico è quello dei collettivi aperti, alla Sault per capirci. Gruppi di musicisti che cambiano di continuo, spesso anonimi, costruiti (o no) attorno a una mente che decide i prossimi passi in modo totalmente arbitrario ed apparentemente privo di una soluzione di continuità -e quindi il loro prossimo disco potrebbe essere una mina tribal-funk o una sinfonia gospel per voci e archi, e i fan del gruppo si sorbiranno entrambi i dischi con somma gioia. Non sono l’unico esempio, viene in mente Mourning [A] BLKstar. The Armed si inseriscono (antelitteram) in questa posizione culturale: sostanzialmente anonimi, legati forse a logiche occulte di supergruppo, non così legati al loro genere di riferimento. E il disco con cui si sono imposti nello scenario della musica pesante mondiale è quello con cui hanno sparigliato le carte (Ultrapop, un paio d’anni fa): una specie di manifesto artistico, a cui teoricamente -da lì in poi- sarebbe seguita la musica.
C’è un altro padre putativo dei The Armed: tutto quel sottogenere di black metal escapista statunitense, che ha avuto nei Deafheaven i campioni assoluti in termini di riscontro, ma che ha prodotto anche qualche disco ascoltabile (in particolare la discografia post-black dei Liturgy, da The Ark Work in poi). È un territorio culturale rischioso perché prevede sia che il gruppo si stacchi dalla sua zona di riferimento, sia che il gruppo rimanga in qualche modo coerente alla strada che ha deciso di percorrere: servono genio, perseveranza e non stare troppo a sentire quel che dicono le persone che ti ascoltano. E quindi ha senso che i Deafheaven di Infinite granite smettano di urlare come dei cretini, e che i Liturgy di 93696 suonano come l’involucro di Aesthetica confezionato da un ultracentenario giapponese per regalarlo alla sua bella. Ha anche senso che il nuovo disco dei The Armed (Perfect Saviors, uscito oggi dopo una mezza dozzina di anticipazioni sparse negli ultimi mesi) ritrovi il gruppo in un complesso momento di iperventilazione, schiacciato sul pavimento di una teoria del decostruire ad ogni costo in cui può aver senso e addirittura essere rilevante suonare volutamente scarichi e bolsi, come un modesto gruppo alternative-rock primi novanta cancellato dal sistema immunitario della storia (tipo i Medicine, non so), ma mettendoci qualche vangata di chitarroni postcore sullo sfondo per fornire contesto, profondità d’analisi e un briciolo di ragion d’essere (siamo questi, ma non siamo questi). Quello che è migliorato di molto nella loro rappresentazione è l’idea alla base della musica. I The Armed sembrano aver somatizzato l’idea che il loro pubblico non sia più composto di soli ultratrentenni barbuti con un contratto di lavoro agricolo e le magliette dei gruppi, ma anche e soprattutto da giornalisti musicali laureati che scrivono/hanno scritto per pubblicazioni specializzate ma non disdegnano saltuarie collaborazioni per riviste di moda e design (mi fregio peraltro di appartenere con pieno merito a entrambe le categorie).
Nella (entusiasta) recensione su Pitchfork che ho appena letto viene citato, molto a proposito, il film di Barbie. E quindi tutta l’analisi politica, culturale e sociale che ha generato. E quindi questa idea del film-specchio in cui ogni chiave di lettura è contemporaneamente espressa e negata, dando modo ad ognuno di piegare il prodotto a una serie di teorie prestabilite, in questo forse davvero un film epocale -ma che d’altra parte non credo che per ora abbia fatto un gran bene al dibattito intellettuale (confido, ma non troppo, in qualche buona sorpresa nel lungo periodo). Gruppi come The Armed forniscono un contorno musicale alla stessa ideologia del vuoto: se dentro ci metto tutto, potrai trovarci qualcosa a supporto delle tue menate. Secondo me è abbastanza importante aggiungere LULU, il disco di Lou Reed con i Metallica, e quindi tutti i numerosi interventi culturali che, volontariamente o meno, hanno deciso che la musica pesante possa esistere nel contemporaneo solo come pantomima o presa per il culo di se stessa. E in effetti sotto altri aspetti i The Armed possono essere tranquillamente annoverati all’interno della storia recente dell’hyper-pop come dei 100gecs qualsiasi (gli piacerebbe). Ma del resto anche l’hyper-pop è la vittima più illustre di questa fascinazione Barbie per l’oggetto a cui stai tirando i colpi di mannaia. La domanda diventa: cosa devono pensare gli ascoltatori di tutto questo? La stessa domanda che ci ponevamo ascoltando LULU, del resto: il dubbio che il valore culturale e intellettuale del disco, a cui credevamo ciecamente, non compensasse la totale mancanza di valore artistico. È una questione abbastanza importante, credo, perché si rivolge alle fondamenta di un genere musicale come il metal o l’hardcore e direi la musica estrema in generale -l’incomunicabilità, il bisogno fisico di suonare divisivo. Di mio ho lo svantaggio di aver conosciuto un’altra epoca storica e di aver formato in quell’epoca il mio canone estetico. Alla musica violenta era richiesto di evolvere, ed permessa una sola evoluzione: più violenza. Nei casi limite le era permesso diventare meno brutale ma più chirurgica (meno potenza di fuoco, più danni). Le persone che la suonavano erano costrette a viverla come una religione o comunque a venderla a un pubblico religioso, e difficile da fregare. Fatico a pensare il nuovo disco dei The Armed in quell’epoca, perché i loro seguaci li avrebbero mandati brutalmente affanculo e il mondo del “pop” a cui sembrano tanto interessati a dar lezione ha intellettuali di ben altra caratura con cui chiacchierare ad ora aperitivo. Le ragioni per cui questa cosa oggi sia in qualche modo possibile non riesco a comprenderle fino in fondo, e questo forse è un problema mio. Ma l’ultimo disco dei The Armed fa veramente schifo, e questo è un problema loro.