Il livello della critica musicale in Italia non è mai stato così alto
(riflessioni a margine di un'intervista)
«Fanculo Rambo.»
(Karl Popper)
L’altro ieri è uscita su lampoon.it un’intervista che Filippo Motti ha fatto a Damir Ivic (giornalista musicale), in cui l’intervistato racconta ciò che pensa sullo stato della critica musicale italiana e internazionale, e contiene opinioni piuttosto apocalittiche, che mi danno l’occasione di buttar giù qualche pensierino che sto macinando in testa da qualche tempo.
Inizio con tre premesse, se posso. La prima è che conosco Damir Ivic. Per quanto ricordo non ci siamo mai incontrati, ma saltuariamente parliamo online e abbiamo un rapporto cordiale. Sono molto spesso in totale/assoluto/feroce disaccordo con la roba che scrive, ma altre volte sono in totale/assoluto/entusiasta accordo, e quindi diciamo che mi sento pulito su questa cosa; la sua intervista è arrivata in un momento nel quale stavo tirando un po’ di somme; uso le cose che ha detto lui solo perché sono largamente condivise e accettate come verità assolute. Seconda premessa: userò cose che dice lui (in corsivo), e sotto scriverò cosa ne penso io, e saranno cose spesso in totale disaccordo. Lo faccio con la convinzione che chi legge sia in grado di capire che ci sia una differenza tra essere in disaccordo e pensare che un altro dica cazzate, o non avere rispetto. Spero che questo possa essere chiaro una volta finito di leggere. La terza premessa è che tutto ciò che segue potrebbe essere poco interessante per le persone che non leggono o scrivono abitualmente di musica, ma d’altra parte siete iscritti a Bastonate Per Posta e ho dato per scontato che anche voi siate irredimibili nerd.
LO STATO DELL’UNIONE
Credo che [il giornalismo musicale italiano] sia nel punto più basso della sua storia» esordisce Damir Ivic. «Se è davvero così, lo scopriremo tra qualche anno. Ho memoria di quando il giornalismo musicale era veramente rilevante: influenzava il comportamento d’acquisto delle persone e il loro portafogli. Questo fa la differenza. Una recensione positiva o negativa poteva spostare fatturati per centinaia di milioni di lire. Adesso questa correlazione è completamente frantumata. Il giornalismo musicale ha perso questa centralità nelle dinamiche comportamentali, diventando un’opinione tra tante nel momento in cui tutti adesso possono esprimerne una e farla circolare»
Ricordo piuttosto bene le mail che in un passato remoto alcune etichette/distributori avevano scritto, a me o alle redazioni, lamentandosi di alcune stroncature che avevo firmato. Curiosamente erano sempre mail che si lamentavano della mia scarsa professionalità, di certi toni che avevo utilizzato per demolire i loro artisti e insomma ok il diritto di critica ma non bisogna mai scadere nell’insulto -casi in cui, in sostanza, mi insegnavano a fare il mio lavoro. Altrettanto curiosamente, nessun distributore si è mai lamentato via mail per il fatto che avevo scritto un loro disco in maniera positiva ma poco professionale. Ancor più curiosamente, da quando la critica non influisce più sulla performance dei dischi, quelle mail non arrivano più. Quindi sì, sono assolutamente d’accordo sul fatto che la critica abbia perso la capacità di far vendere o non vendere dischi, anche se questo è dovuto a un processo di erosione che è in atto da quando esiste la stampa musicale. Nel senso: un conto sono i dischi che ti faceva vendere una recensione su Creem nel 1974, un conto sono i dischi che non ti faceva vendere una stroncatura su Rolling Stone nel 1988, e un altro conto ancora una stroncatura su Ciao 2001 uscita lo stesso anno. Ma anche accettata la premessa, visto che la critica non può partecipare (per definizione) agli utili di un disco, personalmente non trovo in questa cosa un singolo lato negativo. Forse si potrebbe obiettare che il fatto di muovere pochi soldi possa far perdere alla critica musicale la capacità di definire l’immaginario contemporaneo, ma per altri versi il filosofo più citato e saccheggiato dall’immaginario degli ultimi 10/15 anni è Mark Fisher e Mark Fisher, a prescindere da quel che qualcuno vorrebbe farci credere, era soprattutto un critico musicale. Non si riflette abbastanza, secondo me, su questo aspetto (toccato marginalmente anche da Damir, più avanti nell’intervista): una volta la critica musicale si sentiva così necessaria al succedere della musica che aveva poche occasioni di uscire dall’orticello, una cosa che oggi -per tutta una serie di ragioni, per carità- succede sempre meno e dà origine a figure molto più miste e variegate che sono anche, ma non solo, gente che scrive di musica.
DONATELLA E I BLUR
«La gente non è più abituata a pagare per ottenere informazioni; la conseguenza è anche un diminuire della professionalità attorno a quello che si fa» (…) «Il quadro è abbastanza cupo. Non è che il giornalismo musicale sia irrilevante del tutto, ci sono delle voci che ancora possono influenzare il gusto collettivo. Ma mentre prima questa influenza era regina, senza concorrenti, adesso la voce di un critico ha la stessa importanza di quella di un influencer o di uno stylist. I gusti di Alessandro Michele possono contare di più di quelli di Andrea Laffranchi, principale critico musicale del Corriere. Ormai è un mondo molto più complesso, con molte più variabili».
Un inciso: la parola “professionalità” in questi contesti viene sempre considerata un sinonimo della parola “competenza”, e ci si aspetta che una persona pagata per fare una certa cosa la faccia meglio di una persona che la fa gratis. Ma all’atto pratico bisognerebbe andare a scavare nello specifico di cosa voglia dire “professionale” e in quale contesto. Parlo in generale, non per quanto riguarda la critica musicale. Esempio classico: mia mamma è molto meno professionale del padrone del chiosco in cui ho preso la piadina ieri sera, ma la piadina di mia mamma è molto meglio della piadina di quel chiosco. Allo stesso modo vi invito a leggere le pagine culturali di quotidiani come Repubblica o La Stampa, per dire i migliori, in particolare quando escono (non spesso) contributi che si degnano di fare approfondimenti musicali su qualcosa che il mondo non ha già largamente approfondito per conto suo. Sfido chiunque a sostenere che la maggior professionalità dei columnist di questi quotidiani sia in grado di produrre roba vagamente in grado di competere con l’energia di un pezzo su Jeff Rosenstock scritto da Pucci sulla sua newsletter gratuita (iscrivetevi). Sul discorso generale, in ogni caso, è vero che i gusti di uno stilista possono contare molto più di quelli di un critico musicale, ma d’altra parte anche nel settembre ’96 un musicista che guardava al cestino delle monete avrebbe preferito essere amico di John Galliano piuttosto che di David Toop. O almeno credo. Secondo me si torna un po’ al discorso di sopra: una volta il giornalismo musicale aveva una percezione di sé abbastanza intensa e onanistica da poter pensare di esistere in maniera autonoma dal resto del mondo. Con tutte le sue ragioni, sia chiaro, perché l’equivalente emotivo di quello che per me era aprire per la prima volta il numero di Rumore di Aprile 1995, insomma, non credo che oggi esista, e aver significato quella cosa per qualcuno è una cosa piuttosto potente. Ma del resto non esiste nemmeno l’equivalente emotivo di quello che per me era il nuovo romanzo di Ellis o il nuovo disco dei Korn in quegli anni lì. Continuo a pensare, tuttavia, che sia un grande sbaglio non capire che a mancarci non sono il giornalismo musicale di quando avevamo 16 anni, né la musica di quando avevamo 16 anni, a mancarci sono i nostri 16 anni (che a ragion veduta facevano più schifo del quarto disco dei Korn, ma lasciamo perdere). Provo a fare un altro esempio: oggi il cinema è in crisi, le sale sono vuote e il futuro non butta bene. Ma possiamo vederci un film iraniano in lingua originale tre giorni dopo che è stato presentato a Venezia, su uno schermo a 72 pollici che magari teniamo in soggiorno, e se vogliamo tornare indietro dobbiamo ridare indietro anche lo schermo a 72 pollici e aspettare che il film iraniano lo passi Ghezzi il sabato notte -va bene parlarne ma se un giorno si dovesse andare a votare vi assicuro che il NO stravincerebbe.
I BAIOCCHI
«Le stesse opportunità sono molto meno accattivanti di un tempo. All’epoca, quindici, vent’anni fa, iniziare a scrivere sul giornale poteva darti la lecita speranza che prima o poi saresti riuscito a mantenerti di questo. Oggi è già un miracolo riuscire a farsi pagare dieci euro un articolo. Nel momento in cui persino quotidiani come Repubblica e Corriere arrivano a pagare 7,50 € un pezzo, dove vogliamo andare? Figuriamoci cosa possano fare le testate musicali che vivono con il gratuito. Ormai è normale pagare tanto per avere delle scarpe, ma non per essere informati. C’è questa distorsione in atto».
Molta gente di quella che legge avrà tentato in una qualche misura di imbarcarsi nella carriera di giornalista, con esperienze che magari si possono retrodatare fino a venti o trenta anni fa. Credo che chiunque di noi abbia una lunga e dolorosa storia di compensi ridicoli o inesistenti a fronte di richieste assurde e gestioni che potremmo eufemisticamente definire irrispettose dei contributi che abbiamo inviato. Abbiamo fatto tesoro di quelle esperienze e ci hanno aiutato a costruire un modo di stare al mondo, e tutto sommato non penso che per questo aspetto il 2003 sia stato più tenero del 2023. È altrettanto vero che quasi tutti abbiamo avuto esperienze di altro tipo, miraggi di gente che è venuta da noi con la promessa (a volte perfino mantenuta) di mille euro puliti per un articolo che richiede un pomeriggio di lavoro, o di redazioni che hanno sborrato soldi a destra e a manca per tre anni quando c’erano ancora finanziamenti pubblici e/o surplus di varia natura da stornare in un altro centro di costo. Mi sento anche di dire che al di fuori di una cerchia di giornalisti bravissimi e rispettabilissimi, nessuno dei quali scrive solo di musica, si è trattato di eccezioni che ci hanno dato un po’ di acquolina ma nessun appartamento al mare.
EVOLUZIONI
«Un tempo solo il giornalista musicale poteva avere accesso a un grande numero di dischi perché gli arrivavano i promo. Altrimenti dovevi essere ricco di famiglia. Nel 2023 chiunque può ascoltare tutta la musica che vuole; la conseguenza è che tutti si sentono un po’ giornalisti musicali, e facendo circolare questa patente la cosa si è deprezzata per un meccanismo puramente inflativo»
«L’epoca dei social network ha sviluppato l’ego e il narcisismo di tutti noi, me compreso. Mentre prima interessava il parere degli esperti, adesso tutti noi ci sentiamo esperti di quello di cui fruiamo. C’è molto meno interesse ad approfondire, ad ascoltare le opinioni di chi in teoria dovrebbe saperne più di te, perché parti dal presupposto che tu già ne sai abbastanza, visto che hai accesso all’informazione, quindi ti senti sufficientemente preparato».
«Oggi chi scrive di musica si rifà a se stesso» (…) «Non lo dico come critica, ma come constatazione neutra: essendoci più superficialità nel fare le cose si studiano meno gli altri. Io ho sempre avuto il desiderio di scrivere, nello specifico di musica, da appassionato. E analizzavo con attenzione quello che facevano i giornalisti già affermati. Mi ricordavo le firme, guardavo le differenze stilistiche… Non credo che oggi ci sia la stessa attenzione, anche perché nell’80% dei casi gli articoli sono davvero all’acqua di rose».
Ci sono tante questioni sulla griglia, provo a buttarne giù alcune. Per prima cosa, è difficile obiettare sul fatto che il mestiere del giornalista sia cambiato negli ultimi vent’anni. ma del resto posso testimoniare personalmente che negli ultimi vent’anni è cambiato molto anche il mio mestiere di impiegato commerciale -ci sono realtà diverse lì fuori, prodotti diversi da vendere, metodi di spedizione totalmente nuovi, fatturazioni elettroniche, logistiche automatizzate, sistemi di tracciamento e nuove normative sui fertilizzanti; a volte mi sembra di non stare nemmeno facendo lo stesso lavoro di vent’anni fa -e credo che sia un dato interessante, considerando che di lavoro vendo semi di ortaggi, una merce che veniva scambiata tra gli umani quando ancora non esistevano manco le bestemmie
(una materia prima fondamentale, oggi, per lavorare nel settore primario)
Lì fuori è cambiato tutto, in modi che non abbiamo nemmeno l’ambizione di concepire. Una volta entravi in un bar e la radio in FM sparava Ramazzotti e gli 883; i più attenti e ricercati tenevano una pila di compilation lounge/jazz/folk irlandese in CD. Oggi entri in un baretto qualunque e ti trovi ad ascoltare una playlist di Spotify con pezzi di Camper Van Beethoven, Vaselines, Big Audio Dynamite (mi è successo), o una TV accesa su qualche canale deep dub (mi è successo). Il pubblico comune riempie arene e club per gruppi che vent’anni fa avrebbero suonato alle sei del pomeriggio in un festival punk. Questa evoluzione è naturalmente legata all’idea che si possa consumare buona musica senza doverla necessariamente andare a grattar via con le unghie dagli anfratti del mercato emerso. È naturale che la gente con un interesse per la musica si sia posizionata su un livello superiore. È naturale che chi ascoltava uno o due generi musicali negli anni novanta, oggi ne ascolti dieci o venti. È naturale che chi ascoltava uno o due dischi nuovi a settimana negi anni ottanta, oggi ne ascolti trenta o quaranta. In altre parole, parliamo di un pubblico musicale oggettivamente più preparato, che ha opinioni molto più complesse e strutturate, a cui -in tutta franchezza- io non ho la pretesa d’insegnare nulla. Di questa ovvietà non si parla, o se ne parla solo riferendosi a una fantomatica ‘presunzione’ di ascoltatori moderni che oggi si sentono stocazzo, ma è un’ovvietà che è stata introiettata da tutti coloro che scrivono di musica: fatte 100 le persone che leggono un tuo articolo, ce ne sono almeno 50 con una conoscenza musicale paragonabile alla tua. Per una rivista cartacea, se devo limitarmi ai feedback, questa percentuale sale parecchio: l’80% delle persone che comprano la rivista per cui scrivo ne sa quanto me, o più di me. Perché dovrebbero leggere i nostri articoli, le nostre recensioni? La mia ipotesi è che ci trovino qualcosa che, citando un noto filosofo tedesco del tardo ‘800, says something to me about my life.
Un’altra cosa a cui non si pensa molto spesso è quanta musica bella ci sia oggi. Prendiamo proprio l’esempio di oggi, del giorno in cui sto finendo di mettere giù queste righe: sono usciti dischi nuovi di Irreversible Entanglements (stupendo), Alabaster De Plume (bellissimo), John Fahey (bellissimo), Sparklehorse (ho letteralmente pianto), Courtney Barnett (bello ma molto problematico e spero di poterci tornare sopra), Chemical Brothers (bello). Questo solo tenendo conto dei dischi che mi ero segnato di ascoltare. L’idea di tornare a una situazione in cui tra me e uno di questi dischi possa esistere un qualsiasi tipo di ostacolo mi sembra francamente intollerabile. L’idea che qualcuno dovrebbe essere costretto a ignorare Irreversible Entanglements e John Fahey perché il disco di Sparklehorse è più importante, o qualcosa del genere, mi sembra francamente intollerabile. L’idea che (alla luce dei dischi usciti oggi) qualcuno pensi che oggi non si faccia più musica di qualità, o domani non si farà più musica di qualità, mi sembra francamente intollerabile.
Molto di questo dipende dal fatto che la musica odierna sia sostanzialmente ingovernabile. Che sia sfuggita di mano alle persone che una volta la tenevano imbrigliata e che questo, siamo onesti almeno con noi stessi, ha tanti vantaggi. Mi sento abbastanza sicuro ed entusiasta di come stanno andando le cose da potermi permettere di rovesciare il titolo ad effetto dell’intervista di Filippo Motti a Damir Ivic: il livello della critica musicale in Italia (e nel mondo) non è mai stato così alto. E tra cinque anni sarà ancora più alto.
Tengo in mano il quarto numero di una rivista che si chiama Quants e parla di “tempi moderni”; c’è un articolo lunghissimo che parla di come i lo-fi beats di un certo rap vecchia scuola si sia evoluto in un flusso piuttosto singolare nei canali youtube e nelle piattaforme di streaming. Un articolo del genere in una rivista generica di trent’anni fa, compresi certi campioni assoluti della controcultura a cui oggi si sono edificati monumenti, sarebbe stato impensabile. L’entusiasmo di far parte del presente viene anche da questo, dall’essere parte di un genere che non è mai stato così in evoluzione, e così in forma, e così variegato, e così proiettato verso nuovi orizzonti. Senza contare che le cose che scriviamo non devono essere accettate in astratto da chi legge, ma testate in concreto e discusse attivamente. C’è un prezzo da pagare: che so, i canali twitch di gente che dice cose che riteniamo assurde, o magari si lamenta che tutto il buono della musica è finito nel 1984 e da lì in poi è tutto un votarsi al sacro dio delle views e degli streaming usa e getta. E ok, forse il sistema non permette più il formarsi di personalità singole che spicchino così tanto sul resto. E forse non ci sono i soldi per mantenere tutti e tocca continuare a vender sementi. Ma in fondo chi se ne frega.