il dilemma di Cole Smithey
sottotitolo: "sopravvivere da scrittori di musica alla fine dello scrivere di musica"
La settimana scorsa ho comprato un nuovo aspirapolvere, un acquisto che ho rimandato per tutto il tempo che mi è stato possibile, finché un sabato mattina la questione si è posta davanti a me nei panni di una creatura gigantesca con il viso della mia fidanzata e lo swag del Thanos all’inizio di Avengers Endgame quando sussurra “I am inevitable”. Per concludere l’acquisto ho fatto quello che fanno tutti coloro che, presto o tardi, si sono trovati nella mia posizione: mi sono loggato a internet, ho imparato cosa si intenda oggi per aspirapolvere, ho cercato di apprendere quali progressi tecnologici hanno rivoluzionato il settore degli aspirapolveri nell’ultimo ventennio e ho cercato di capire quale fosse la soluzione giusta per il mio appartamento. Per questo motivo, tanto per dire, oggi so cosa sia un filtro Hepa. Una volta individuata la tipologia di prodotto che meglio si adeguava a me, ho confrontato i modelli dei diversi produttori cercando di districarmi tra specifiche tecniche oggettive e recensioni fornite da clienti e istituzioni varie, alla ricerca del miglior rapporto tra qualità e prezzo. Individuata una serie di prodotti che facevano al caso mio, sono andato al negozio con un dubbio tra due aspirapolveri, e la responsabile di reparto mi ha aiutato a scegliere tra i due, rendendomi oggi il felice possessore di un aspirapolvere Miele clamorosamente simile a Pomelo elefantino da giardino (se non avete figli cercatelo su internet), che pare funzionare bene o comunque molto meglio di quello che avevo prima. Dicevo: lo facciamo tutti, per qualunque acquisto sopra i 60 euro e anche per meno -anche solo per trovare la miglior pasticceria della città che andiamo a visitare. Tutti lo troviamo perfettamente normale e perfettamente circostanziato, perché il piacere è una gabbia e non riusciamo a giustificare razionalmente quanto ci faccia incazzare una cattiva brioche, così cerchiamo di limitare i danni. Lo dico perché da persona che scrive di musica ho sviluppato una teoria, probabilmente sbagliata ma meno di quanto si pensi, secondo cui i musicisti sono critici musicali che non ce l’hanno fatta. E mi capita spesso di venire messo di fronte al fatto che le recensioni non servono più a niente e che tutti possono ascoltare il disco gratis e farsi la loro opinione invece che chiederla a te, dalle stesse persone che controllano le recensioni su internet prima di entrare a bere un cappuccino in un bar di Busto Arsizio.
_
Nel dicembre del 2017 è in sala un film di Greta Gerwig che si chiama Lady Bird, il quale sta piacendo davvero molto, e anzi detiene un record incredibile: è l’unico film in sala ad essere stato certificato 100% fresh nella storia di Rotten Tomatoes. Sono certo che lo sappiate meglio di me, ma ve lo dico comunque: Rotten Tomatoes (abbreviato RT) è una specie di Tripadvisor del cinema. Con Tripadvisor condivide una mission originaria che definire nobile è poco: permettere alla gente di orientarsi al meglio, e oltretutto gratis, in un certo campo. RT svolge un lavoro epico di raccolta e ricapitolazione e fornisce uno strumento critico potenzialmente utilissimo e clamorosamente utile; ma quasi nessuno va sul sito per questa ragione. Il motivo per cui quasi tutti vanno su RT è il cosiddetto Tomatometer, in italiano il pomodorometro (lo chiamava così Kekkoz ai tempi di Friday Prejudice), ovvero un numero che trovate all’inizio della pagina. Questo numero, che ad essere esatti è una percentuale, identifica il rapporto tra il numero di recensioni positive e il numero di recensioni totali del film. Per ottenere questo numero il sito svolge un’operazione barbarica: raccoglie le recensioni che secondo certi criteri considera meritevoli, le riduce ai minimi termini e le codifica in una sorta di sistema binario, nel quale ogni tipo di parere su ogni tipo di film può essere solo “fresh” (positivo) e “rotten” (negativo). Compiuta questa operazione basta contare i fresh rispetto al totale, e si ottiene il pomodorometro. Il monumentale “100%” che trovavate in quei giorni andando a visitare la pagina di Lady Bird significava che ogni recensione di Lady Bird raccolta da RT era positiva.
Una cosa importante da capire su questa storia è che nel dicembre del 2017, che a volte sembra l’altro ieri e a volte sembra i tempi della cortina di ferro, è che Rotten Tomatoes era già diventato da diverso tempo l’unica vera cosa che contemporaneamente avesse in qualche modo a che fare con la critica cinematografica E fosse anche in grado di influenzare in maniera sostanziale l’andamento di un film in sala, con conseguenze molto importanti dal punto di vista della distribuzione e della produzione. E in effetti il 100% di Lady Bird diventa nei primi giorni una notizia a cui molte testate americane legate alla cultura indie danno spazio. Ma un articolo dell’11 dicembre su Indie Wire rivela che, pur essendo un capolavoro assoluto e senza alcun difetto rilevabile, Lady Bird non ha più il 100% su RT. Qualcuno ha fatto saltare il perfect game di Greta Gerwig facendo mettere a referto una stroncatura del film, e Lady Bird è ora riscalato a un tristissimo 99%. Che vuol dire letteralmente che “su 100 recensioni di questo film, 99 sono positive”. Voglio dire, io ci farei la firma. Di chi è la stroncatura? Tale Cole Smithey, felice possessore di un sito personale di recensioni di film, indicizzato su RT. Fino a qui diciamo che è tutto abbastanza spiegabile, magari non in una prospettiva di lunghissimo periodo, ma nel qui e ora del 2017 può avere un suo senso.
Va anche detto che il pezzo di Indie Wire trasuda livore e posizionamento culturale, tipo “è arrivato uno stronzo alla festa e ha abbassato la musica”. In queste cose si tende spesso a non considerare il contesto, che farebbe sembrare tutto un po’ un paradosso. Recentemente su Twitter va di moda dare dei fascisti a tutti quelli che parlano di complessità, quindi mi sento obbligato a puntualizzare che quando dico “considerare il contesto” intendo che nel caso di specie parliamo di una testata giornalistica che pubblica un articolo per lamentarsi del fatto che un’altra testata giornalistica ha pubblicato un parere negativo su un film, e che questa cosa ha distrutto un record. Ancora meglio, il 15 dicembre su Vulture esce un articolo firmato Hunter Harris e intitolato Who Is This Dude That Ruined Lady Bird’s Perfect Rotten Tomatoes Score? An Investigation. Essendo gli USA un paese di pazzi, l’articolo di Vulture è una vera e propria inchiesta giornalistica. Viene soppesato il voto al film, che nel sito di Smithey è “B-“, e quindi un voto tutto sommato piuttosto alto. Viene messo in evidenza che altri “B-“ nel sito di Cole Smithey, ad esempio The Neon Demon, sono certificati “fresh” su Rotten Tomatoes, e questo fa sentire un po’ puzza di bruciato. Harris parla con un* rappresentante di Rotten Tomatoes, il quale fornisce un dettaglio succoso: è lo stesso Cole Smithey, e non qualcuno del sito, ad inserire i suoi rating su RT. Traduzione: è lui a decidere se una sua recensione sia “fresh” o “rotten”. In sostanza, c’è ragione di pensare che Smithey non pensi così male del film, ma abbia comunque voluto assegnare a Lady Bird un “rotten” per buttar giù il “100%”. Nei giorni successivi Smithey cambia il voto al film in “C+” e Vulture, probabilmente in un aggiornamento successivo, aggiunge questa cosa alla lista delle accuse.
A questo punto della storia, per quanto mi riguarda, la barriera del WTF è stata già infranta una decina di volte, ma le cose non sono finite. L’articolo su Vulture fa riferimento a una conferma dello stesso Smithey, che di fatto il critico ha dato. Una volta scoppiato il caso a Smithey rimanevano due opzioni: scusarsi o spiegare, pagando in entrambi i casi lo scotto della scelta. Così decide di spiegare il suo punto di vista, e quindi confermare la tesi di Vulture: ha visto Lady Bird e l’ha considerato un film diciamo abbastanza ok, ma ritenendo assurdo che un film del genere sfoggiasse un record immacolato su RT, ha ritenuto fosse il caso di immolarsi e intervenire in prima persona. Il dibattito va avanti per diversi giorni perché riguarda, anche se non in massima parte, il ruolo della critica in un sistema che sta cambiando rapidamente, e forse anche il ruolo della critica al di fuori dei sistemi. Entrambi gli articoli citati, quello di Indie Wire e quello di Vulture, sono palesi hatchet job su Cole Smithey. Vulture lo accusa apertamente di scarsa professionalità, appoggiandosi all’oggettività di un sistema di rating che viene implicitamente considerato infallibile. Qualcuno, nel corso del dibattito, lo elegge ad (anti)eroe contemporaneo. Alla fine diventa una questione di tifoserie. Sul momento ho avuto anche io una posizione piuttosto ambivalente. Credo sia una domanda che oggi si è costretti in qualche modo a porsi, in certi ambiti della critica artistica. Quelli che scrivono di musica sono attaccati a destra da una frotta di artisti/etichette/promoter/ufficistampa che chiedono recensioni e interviste, e a sinistra da un botto di gente che ha sposato il new deal e racconta in giro che le recensioni non hanno più alcuna influenza sul dibattito culturale (che in soldoni significa “non sono più in grado di far vendere o perdere copie”, come se la mia principale ambizione da critico fosse contribuire alla rovina economica dei rapper che non mi piacciono).
_
Come dicevo sopra, Rotten Tomatoes è uno strumento prodigioso di archiviazione e ricapitolazione. Dal punto di vista di un lettore di riviste è una risorsa impagabile. 25 anni fa, quando ancora ero malato di cinema, passavo i miei giorni da studente in biblioteca divorando libri di approfondimento, monografie, castori, gli annalini di Kezich, i dizionari di Mereghetti&Morandini. Leggevo le recensioni dei film che avevo visto e le usavo per avere un’altra prospettiva rispetto al mio gusto. Credo che mi abbia fatto crescere e mi abbia permesso di vedere delle cose nel cinema che con i miei occhi non avrei visto. Da questo punto di vista Rotten Tomatoes è una risorsa incredibile. Rotten Tomatoes mi permette, seduto sul mio divano e senza spendere un euro, di leggere 98 recensioni di Shining, pubblicate all’epoca del film o negli anni seguenti, alcune delle quali scritte da top critics (gente di reputazione inossidabile, Roger Ebert e simili per capirci, che viene indicizzata nel sito in una categoria a parte). Ci avete mai provato? È bellissimo. Rileggere articoli vecchi di quarant’anni e capire quali fossero i valori dell’epoca, quanto si desse importanza alla regia piuttosto che al testo piuttosto che alle prove degli attori, e magari fare un confronto con l’epoca in corso, in cui per tutta una serie di motivi la critica cinematografica mondiale è diventata una cosa completamente diversa da quel che era. Come dicevo sopra, questo sublime aspetto di RT non importa a molte persone. La fortuna di RT si deve totalmente al tomatometer, quel numerino in alto a sinistra, che garantisce (anche e soprattutto grazie al lavoro di archiviazione che c’è alle spalle, ma solo dopo una brutale semplificazione dello stesso) la possibilità di dare un voto che sia quanto più “oggettivo”, o comunque che abbia la maggior struttura di oggettività possibile, a un certo film.
Gli habitué di siti come Tripadvisor hanno già visto collassare miseramente questo sistema di rating, che oggi ha fatto il giro ed è diventato, almeno per me, una specie di discriminante a rovescio. A volte prima di entrare in un ristorante che non conosco guardo il punteggio Tripadvisor e se è troppo alto lo evito. I ristoranti con un punteggio altissimo sono molto raramente ristoranti di valore, perché un sacco di gente che vota su Tripadvisor valuta i ristoranti sulla base di una serie di indicatori che io trovo stupidissimi. I ristoranti si beccano un voto negativo perché il cliente ha atteso troppo tempo tra il primo e il secondo, perché il menu non prevedeva variazioni, perché i camerieri sono stati “maleducati”, perché c’è stato un problema con il conto e altre stronzate del genere. Non voglio dire che sia giusto o sbagliato offendersi se quella sera il cameriere cià i cazzi suoi, ma questi fattori vanno ad annacquare un discorso personale piuttosto fastidioso. È chiaro che a qualcuno queste cose importano molto, ed è chiaro che quel qualcuno non sono io. E quindi? Sospendiamo il giudizio. È più facile che si becchi un buon punteggio il classico ristorante medio-medio, strutturatissimo, con un menu sterminato e la capacità di servire 450 coperti e tanta flessibilità e poco bisogno di imporre la propria filosofia culinaria e prezzi non eccessivi, cioè -a grandissime linee- lo stesso ristorante che 25 anni fa avreste trovato su tutte le guide. A me questi posti (i cosiddetti carnai) non piacciono. Coi film succede più o meno la stessa cosa: un film che piace a tutti è, quasi per definizione, un film che non offende nessuno. E quindi risponde con tutta probabilità al canone estetico dell’epoca in cui esce, senza strafare e senza rischiare controversie, senza esagerare coi dettagli splatter e senza metterti di fronte a dilemmi ideologici insopportabili. Secondo voi è meglio un film che piace un po’ a tutti quanti o un film che piace tantissimo a tre persone su dieci? Mentre pensate alla risposta, proseguo a raccontare una storia occorsa qualche giorno fa.
___
Il 20 giugno Michele Serra esce su Repubblica con un articolo nel quale smentisce la veridicità di un tweet circolato qualche giorni prima, scritto da Nicolò Zuliani AKA Nebo e contenente una (non) sua vecchia stroncatura di Shining. L’articolo è il classico articolo dell’ultimo Michele Serra: molto critico nei confronti della rete e delle sue dinamiche, un po’ tendenzioso nelle conclusioni, un filo paranoico. La storia in brevissimo: tre giorni prima Zuliani posta l’immagine di una vecchia recensione e il testo “Nel 1980 M.S. (Michele Serra, credo) recensiva quell’inciampo maldestro di Kubrik chiamato Shining.” La recensione è effettivamente molto dura: “pare già di leggere certi critici che, abbagliati dal nome, prenderanno per raffinatissimi esperimenti d’autore questi inciampi maldestri.” Il tweet genera una modesta discussione, qualche insulto generico, qualche alzata di sopracciglia. Se lo stesso Serra non fosse intervenuto, il tutto sarebbe caduto nel dimenticatoio. Ma il giornalista si sente comunque di intervenire: non ha scritto quella recensione, non ha mai scritto di cinema sulL’Unità, ed è un fan di Kubrick. Fornisce prove di questa cosa. L’argomento di Serra, parafrasato, è il seguente: se si legge Twitter come si leggono le testate giornalistiche, e Twitter viene compilato da persone che non sono soggette al codice di deontologia proprio del mestiere di giornalista, una bufala ha grande possibilità di diventare “informazione” e poca possibilità di venire smentita. Nel caso di specie, addirittura, è lo stesso Zuliani a dubitare in origine che si tratti di Serra, ma nel dubbio avanza comunque un’ipotesi. Come riconosciuto da tutte le parti in causa, è una questione frivola. La questione a cui sono più affezionato è a lato della vicenda: perchè quel tweet esiste? Provo a spiegarmi: poniamo che il tweet fosse accurato e che Serra avesse, in effetti, stroncato Shining. Cosa ci direbbe di Michele Serra? Che ha considerato Shining, ai tempi dell’uscita, un inciampo maldestro con ambizioni da esperimento d’autore. Poniamo che Serra, invece di smentire con un elzeviro, non avesse risposto o avesse semplicemente confermato con un tweet di risposta. “Sì, l’ho scritto io, mi ha fatto cagare, confermo”. Cosa sarebbe successo? Difficile a dirsi. Forse niente.
Si tratta di una questione di cancel culture. Pezzi casuali di passato vengono rimessi in circolo nel presente, spesso in totale buona fede, ed esposti al pubblico ludibrio in un clima di assoluto disinteresse verso il contesto, che semmai sarà fornito da chi è costretto a difendersi, nella speranza (spesso vana) che fornire un contesto possa servire in qualche modo a spiegare le cose. Nella maggior parte dei casi concreti la polemica si sgonfia tanto velocemente quanto velocemente s’era gonfiata, e nessuno ha davvero interesse a intervenire su queste dinamiche nel lungo periodo, perché è tutto a costo zero e se tieni la testa bassa si sgonfia tutto nel giro di 4 giorni. Quando parlo di contesto in riferimento a una stroncatura del 1980, mi riferisco al fatto che nel 1980 esisteva e in effetti prosperava la cosiddetta critica militante, un genere letterario che oggi sembra essersi più o meno estinto.
La definizione da manuale di critica militante la contrappone alla cosiddetta critica accademica, ovvero il sottoinsieme della critica (letteraria soprattutto) che guarda al passato più che al presente e che mira a definire l’importanza dei testi sulla base del loro valore storico. La critica militante si definirebbe come quella che opera nel presente e reclama un posto nel dibattito sull’estetica. La critica militante tende a muoversi secondo dinamiche che oggi è anche difficile spiegare, e quindi -se parliamo di musica- un critico militante è capace di prendere a insulti un disco bellissimo perché è il prodotto di un’ideologia politica o estetica (o anche economica) che il critico considera deleteria per il presente. Questa cosa, oggi, non succede molto spesso. è un discorso delicato. Nell’ambito della critica militante una stroncatura è parte attiva di un discorso estetico e ideologico e non significa necessariamente che quel disco faccia schifo.
_
La risposta alla domanda su quale fosse meglio tra i due tipi di film sopra, ovviamente, è “dipende”. Ci sono film divisivi che amo alla follia e film divisivi che vorrei mandare al rogo. Non so cosa penso di Lady Bird perché non l’ho mai visto. Sta di fatto che il sistema produttivo di Hollywood, ovvero il principale cliente/fornitore di Rotten Tomatoes, ha assorbito da tempo l’idea che il tomatometer sia l’ultima verità, il giudizio fondamentale per capire quanto valga davvero un film. Al punto che ad esempio il cinema action dell’ultimo ventennio ha preso una direzione decisa e inequivocabile, rappresentata mirabilmente dai film Marvel, in cui le grandi produzioni sono film perennemente a cavallo tra dramma e commedia, con sceneggiature e dialoghi perfetti, regia quasi inesistente, atteggiamento mediamente politico-allegorico ma mai apertamente schierato contro qualcuno o qualcosa -fondamentalmente delle romcom con i supereroi, e io da fanatico delle romcom e dei supereroi non ho molto diritto a lamentarmi. Il punto è questo: un film come Guardians Of The Galaxy è forse difficile da amare profondamente ma impossibile da odiare. Sulla possibilità che questi film possano davvero essere inquadrati in un discorso critico forte, o un discorso di estetica anche molto banale, e magari segnare l’immaginario, ci riserviamo di parlarne tra una dozzina d’anni. Ma chi ha davvero voglia di mettersi di traverso oggi? Chi si prende carico di fare a polpette l’estetica Kevin Feige, metterla alla berlina e immaginare un’alternativa reale, all’interno del sistema-Hollywood?
(è passato da poco nei cinema quello che sarà probabilmente considerato il massimo capolavoro di questa idea di cinema, Top Gun Maverick, che parla di come l’action anni ottanta stia cercando di sopravvivere come segno puro nell’era della fine della storia. Se non l’avete visto, recuperatelo)
_
La musica non esula da queste questioni, tutt’altro. Si può pensare ad esempio, con un briciolo di immaginazione, che l’assenza di critica militante abbia permesso l’affiorare nel presente di questioni come l’affare Kate Bush, che provo brevemente a riassumere: Kate Bush è tornata nella classifica dei singoli con Running Up That Hill, per via della quarta stagione di Stranger Things. Nella settimana d’ingresso qualcuno aveva notato qualche incongruenza sospetta, ad esempio, tra le posizioni nella classifica dei singoli Spotify e la classifica inglese tout-court: prima in assoluto sulle piattaforme, ottava nella classifica generale dei singoli. Da qui una micro-polemica per ottenere un sistema di certificazione più equo del successo di un certo singolo rispetto a un altro, portata avanti su riviste anche importanti. Dopodiché Kate è arrivata in testa e la polemica è scemata, per lasciare il posto a una domanda dello stesso segno: quanti soldi sta guadagnando Kate Bush? Se ne occupa ad esempio Rivista Studio, con un articolo uscito qualche giorno fa e intitolato “Quanti soldi sta guadagnando Kate Bush grazie a Running Up That Hill?”
(risposta testuale dell’articolo: non lo sappiamo esattamente, forse 2 milioni di dollari ma boh. Viviamo in un presente nel quale è perfettamente normale intitolare un articolo con una domanda a cui l’articolo non è in grado di rispondere)
Gli articoli che escono sono interessanti soprattutto per le cose di cui non si occupano. Nel momento in cui ad esempio si polemizza sul fatto che Kate Bush è ottava in classifica e Harry Styles primo, si esprime il desiderio (non)inconscio che la solidità musicale di Bush scarichi giù per il cesso l’inconsistenza pop di Styles. Bisognerebbe chiedersi, tuttavia, se le stesse testate si siano occupate dell’inconsistenza pop di Styles nelle sedi competenti, ad esempio quando hanno recensito il suo ultimo disco, ma la cosa ai tempi non sembrava particolarmente all’ordine del giorno: Allison Stewart sul Washington Post esprime qualche riserva, il resto sembra tutto orientato sul cauto ottimismo che nel presente riserviamo ai dischi belli ma non bellissimi, che magari non pensiamo marcheranno l’estetica di una generazione o anche solo di un bimestre, ma che potrebbero tranquillamente piazzare una canzone nella scena clou di un film e consegnarsi alla storia. Uso l’esempio di Harry Styles perché calza a pennello, ma anche perché il suo ultimo disco fa schifo -non tanto dal punto di vista musicale quanto ideologico- e viene male allo stomaco a pensare che a un certo punto gli abbiamo dato il credito che si riserva ai grandi autori. Ma è anche e soprattutto la massima incarnazione vivente di quell’idea di musica ricercata ma inoffensiva che inquina il presente del pop, e naturalmente sono opinioni personali, ma credo anche che siano condivise. Ma dall’altra parte le polemiche le ho lette, non scritte. Occorre anche fare la tara a certe recensioni positive, specie nella stampa anglosassone, nel quale è facile leggere quel briciolo di noblesse oblige secondo cui la cortesia è un obbligo e il trasporto un’opzione da non considerare nemmeno (diceva Tuono Pettinato che la cortesia è la forma più raffinata di sadismo); ma se il ruolo della critica è quello di filtrare all’ingresso, lo stiamo facendo male. Torniamo alla domanda implicita di cui sopra: a chi cazzo frega di quale posizione occupa Kate Bush in classifica? A tante persone. Se avesse stazionato tra il settimo e l’ottavo posto è ragionevole pensare che non sarebbero usciti gli articoli di approfondimento su Running Up That Hill, a quasi quarant’anni dalla sua uscita, su riviste generiche tipo Panorama, e le analisi sui social sul fatto che l’inconsistenza della musica di oggi chiami in maniera fisiologica musica consistente, tipo la Kate Bush degli anni ottanta (ma se si deve ripescare un solo nome all’anno, spero che nel 2023 tocchi agli Slayer). Torno alla domanda originaria: a cosa serve la critica? Credo siano in tanti, ancora nel 2022, a percepirsi come “critici musicali” nel momento in cui possono raccontarti il pop del 1985 avendolo vissuto in diretta e poterlo raccontare, naturalmente, con cognizione di causa. Ma si tratta di una contraddizione in termini, perché aver vissuto il passato ti impedisce in maniera fisiologica di vivere una parte del presente -quando rimpiangi Kate Bush o i Massive Attack in radio nei tuoi 19 anni, rimpiangi più che altro i tuoi 19 anni, e fidatevi quando vi dico che la programmazione di Deejay nel ‘96 valeva artisticamente tanto quanto quella di oggi. In questo caso, quindi, l’equivoco è legato a un problema tra generazioni, o al fatto che una parte consistente di critica accademica sia straconvinta di essere critica militante.
Una delle ragioni è senz’altro il dilemma di Cole Smithey, e cioè il dubbio se arrendersi alla coscienza che fare critica oggi sia soprattutto produrre mattoncini che servono a costruire un edificio e combattere il sistema dall’interno, o reclamare il proprio ruolo in un sistema che ti vede come un pensionato che bestemmia al bar sport. Può essere frustrante rispetto ai tempi in cui una stroncatura di Lester Bangs poteva creare o distruggere un fenomeno musicale, ma non credo che fosse giusto dare così tanto credito ai Lester Bangs. I quali, comunque, vivevano e prosperavano in un periodo diverso da questo, nel quale la critica militante non doveva far finta di essere, anche lei, critica accademica: scrivere un parere su un disco libro film fumetto serie TV con la coscienza di esser letta tra 40 anni e dover rendere conto delle proprie posizioni. L’ennesimo paradosso, considerato che internet non sembra manifestare alcuna volontà di conservare i propri contenuti e che le analisi degli esperti di settore ci dicono da 10 anni che la carta su cui scriviamo non è buona manco più per pulirsi il culo. Si può tornare indietro? Evidentemente sì, pagandone i costi in termini di, boh, rilevanza culturale (tra zero e zero, tanto vale fare quel che ti piace). Se il contesto e la complessità non sono più in grado di giustificare il passato, non possono nemmeno vincolare il presente, e questa è ancora la miglior epoca della storia per far finta di vivere in un’altra epoca. Manca un paragrafo conclusivo ma ho già abusato della vostra attenzione e quindi clicco “invia” senza rileggere.