Ultima settimana di gennaio 2022. In Italia impazzano i quirinalisti dell’ultima ora quando dalla profonda pancia produttiva dell’America settentrionale arriva una presa di posizione ideologica che nel terzo millennio suona -è il caso di dirlo- a metà tra il commovente e l’incomprensibile. Neil Young pubblica sul suo sito una lettera aperta (poi cancellata, riporta Rolling Stone USA, ma qui si trova la nuova versione destinata ai colleghi artisti), dove intima a Spotify di eliminare tutto il suo catalogo dalla piattaforma di streaming e podcasting. “Lo faccio perché Spotify sta diffondendo informazioni false sui vaccini — potenziale causa di morte per coloro che credono nella disinformazione diffusa da loro stessi” scrive il cantautore canadese. “Fatelo subito, oggi, e fatemi sapere quando sarà. Voglio che facciate sapere a Spotify che voglio la mia musica fuori dalla loro piattaforma. Possono avere Rogan o Young. Non entrambi”.
Il cognome nominato da Neil Young è Joe Rogan, all’anagrafe Joseph James Rogan, 54 anni, già commentatore di wrestling per la Ultimate Fight Championship, stand up comedian dagli anni Ottanta. È uno dei pionieri del podcasting negli Stati Uniti e nel mondo intero, avendo iniziato a lavorarci -e guadagnarci, dettaglio non da poco- a partire dal 2009. Il suo attuale podcast su Spotify, JRE — The Joe Rogan Experience, è il primo nella classifica degli ascolti della piattaforma e il più ascoltato negli Stati Uniti (dati Edison Research). Ha avuto come ospiti personaggi come Elon Musk (cui ha fatto fumare una canna in diretta video, contribuendo all’esplosione degli ascolti e alle condivisioni social), Oliver Stone, Snoop Dogg, si è occupato di arte e NFT, ha disquisito di buona parte dello scibile umano con la cazzoneria riservata a chi è sicuro di non perdere mai la faccia e i soldi. È il classico opinionista che va bene su tutto e con tutto, preparato o meno non importa, anzi, delle due meglio che giochi a fare l’uomo del popolo; Rogan è la riprova che la parlantina e il gusto per la provocazione a buon mercato, da Wal-Mart di provincia americana, funzionano egregiamente. Un mix letale di populismo e conformismo mixato con l’inarrestabile fiuto per la polarizzazione pro-contro, vera metrica della popolarità social-e e dei discreti guadagni: per averlo in esclusiva, riporta il Wall Street Journal, Spotify avrebbe accordato a Rogan cifre vicine ai 100 milioni di dollari (mai confermati dalla piattaforma svedese) nell’accordo stretto a marzo 2020 e Forbes ha calcolato guadagni di 30 milioni di dollari solo nel 2019 grazie ai numeri impressionanti di ascolti e ascoltatori del suo podcast, arrivato a 190 milioni di download al mese. Centonovantamilioni.
Il regno assolutistico di Joe Rogan in cima alle classifiche dei podcast più ascoltati negli Stati Uniti ha cominciato a mostrare le sue ombre durante l’anno passato. Poche settimane prima dell’ultimatum di Neil Young, il 31 dicembre 2021, un gruppo di medici, operatori sanitari, ricercatori e divulgatori scientifici indirizza una lettera aperta a Spotify chiedendo di intervenire sulla palese disinformazione e diffusione di fake news sul Covid-19 operata dal suo main podcaster. “Durante la pandemia di COVID-19, Joe Rogan ha diffuso ripetutamente affermazioni fuorvianti e false sul suo podcast, provocando sfiducia nella scienza e nella medicina” si legge nella lettera. “Ha scoraggiato la vaccinazione nei giovani e nei bambini, ha affermato erroneamente che i vaccini mRNA sono “terapia genica”, ha promosso l’uso dell’ivermectina per trattare il COVID-19 (contrariamente agli avvertimenti della FDA — la Food And Drug Administration che regolamenta l’utilizzo dei farmaci negli Stati Uniti, ndr) e ha diffuso una serie di teorie del complotto infondate”, hanno riassunto accorati. La capacità penetrativa di Rogan presso la sua fan base di ascoltatori, principalmente uomini di 24 anni (dati Mediamonitor), è molto forte, ed è in grado di raggiungere valanghe di persone estremamente fidelizzate in brevissimo tempo: si stimano 11 milioni di download a puntata. Un potere enorme che lo ha fatto definire “una minaccia per la salute pubblica” (parola dell’epidemiologa Katrine Wallace dell’University of Illinois — Chicago School of Public Health, citata da Rolling Stone USA), specialmente dopo gli ultimi 24 mesi di morti.
La puntata che ha rotto definitivamente gli equilibri e superato ogni soglia di tolleranza all’opinionismo spinto è stata la 1757, ospite il medico Robert Malone, chiamato da Rogan proprio dopo la sospensione da Twitter per diffusione di fake news complottistiche sul Covid-19 (qui il riassunto di Forbes). Trovando sponda in Rogan, Malone si è lanciato in paragoni assurdi tra le politiche nazionali della pandemia e l’Olocausto, e ha sostenuto che le persone sono state ipnotizzate per credere alle informazioni mainstream sul Sars-Cov-2 (la teoria della mass formation psychosis, il debunking di AP News lo spiega chiaramente). Il podcast e il relativo video hanno raggiunto numeri allucinanti di ascolto/visualizzazione, merito anche delle condivisioni su Facebook. “Queste azioni non sono solo discutibili e offensive, ma anche pericolose dal punto di vista medico e culturale” hanno denunciato i medici, concludendo la loro lettera aperta con queste parole:
Questa non è solo una preoccupazione scientifica o medica; è una questione sociologica di proporzioni devastanti e Spotify è responsabile di consentire a questa attività di prosperare sulla sua piattaforma. Noi sottoscritti medici, infermieri, scienziati ed educatori chiediamo quindi a Spotify di stabilire immediatamente una politica chiara e pubblica per moderare la disinformazione sulla sua piattaforma.
Cosa è successo dopo? A parte il debunking affannoso dei siti di informazione su quanto dichiarato da Robert Malone e Joe Rogan, sostanzialmente nulla. Nella lettera non si chiedeva di eliminare il podcast di Malone, e la piattaforma di Daniel Ek di certo non ha intenzione di rinunciare alla sua preziosa macchina da revenues. La richiesta dei ricercatori&co. è semplicemente un punto di partenza: prendere atto della responsabilità di pubblicazione di certi contenuti, non farlo con leggerezza, non sottovalutare il potere stesso dell’informazione (s)corretta. Un grido muto. Si ripete ad ogni latitudine da ben prima della pandemia, solo che oggi al centro c’è la reale salute di tutti.
Qualche settimana più avanti, Neil Young scrive il suo asciutto j’accuse a Spotify, montando un altro tassello ad una relazione già in passato complessa (il cantautore canadese è stato a lungo restio a sbarcare sulle piattaforme di streaming, Spotify in primis, perché sosteneva che la qualità dell’audio fosse troppo bassa, ma nel 2019 aveva riconosciuto in un’intervista “È dove le persone raggiungono la musica. Voglio che ascoltino la mia musica, non importa come ci arrivino”). Stavolta la reazione della piattaforma, vuoi per il peso specifico dell’autore, vuoi per la richiesta pubblica, è molto più immediata rispetto alle richieste degli operatori scientifici. Gli eventi iniziano a sovrapporsi. Spotify accetta la proposta di Neil Young della rimozione del suo intero catalogo (a quanto pare bypassando la Warner, casa discografica del cantautore, che ne detiene i diritti: sulle questioni legali del diritto d’autore del caso va letto questo pezzo di Variety), senza nemmeno tentare di convincerlo a restare, e procede ad eliminare Harvest, Gold Rush e il resto dalla piattaforma. Intanto il fronte dello #SpotifyExodus (sto aspettando un mash-up sulla base di Bob Marley, fatevi avanti) si allarga tra gli artisti e gli utenti Premium e Family, che cancellano gli abbonamenti e si disiscrivono dalla piattaforma (per ora dati non ce ne sono, solo un hashtag su Twitter per seguire le eventuali discussioni). Lato artisti si comincia con qualche fake news (su Barry Manilow, che fa sapere a mezzo stampa che non mollerà Spotify) e un paio di adesioni forti: quella del chitarrista e cantante Nils Lofgren, membro della E-Street Band di Bruce Springsteen, e soprattutto quella di peso di una delle più grandi cantautrici del Novecento, Joni Mitchell. Amica di Neil Young da più di cinquant’anni, insieme sono due pilastri della musica della West Coast americana e di tutto l’immaginario che ne è conseguito. Condividono posizioni, esperienze e spessore: entrambi nati in Canada, entrambi autorə storici, entrambi sopravvissuti alla poliomielite negli anni 50 (un dettaglio sanitario non da poco). Il 28 gennaio Joni Mitchell pubblica sul suo sito ufficiale uno stringato messaggio dove annuncia di voler togliere anche lei la sua musica da Spotify. Non nomina direttamente Joe Rogan come aveva fatto il collega, Mitchell va oltre, inquadra lo scenario -e il motivo etico generale della questione: “Persone irresponsabili stanno diffondendo bugie che costano le vite delle persone. Sono solidale con Neil Young e la comunità medico-scientifica globale su questo problema”.
Due giorni dopo, il 30 gennaio, Spotify prova a riprendersi il suo posto nella narrazione. La piattaforma diffonde un comunicato stampa firmato “Daniel” (Ek, il fondatore e capo) che sembra il Bignami del junior account sulla crisis management già dal titolo, Spotify’s Platform Rules and Approach to COVID-19, tentativo di mettere la classica pezza a colore sulla situazione. “Personalmente, ci sono molte persone e opinioni su Spotify con cui sono fortemente in disaccordo. Sappiamo di avere un ruolo fondamentale da svolgere nel supportare l’espressione dei creator, bilanciandola con la sicurezza dei nostri utenti. In quel ruolo, per me è importante che non assumiamo la posizione di censura dei contenuti, assicurandoci anche che ci siano regole in atto e conseguenze per coloro che le violano”, si legge nel comunicato. Spotify fa sapere di aver comunque lanciato un paio di iniziative di contenimento: ha rimosso ben 20mila contenuti che facevano disinformazione sul Covid-19, e ha aperto un hub permanente di fonti scientifiche sicure -da consultare per comprendere l’andamento della pandemia- che verranno promosse in apertura di ogni contenuto relativo al Coronavirus, un content advisor apposito. Fermo immagine, cambio social: onestamente, in quanti cliccano su quei giganteschi banner dedicati all’informazione sul Covid mentre scrollano le stories di Instagram? Il rischio, con Spotify, è uguale. Noi mettiamo il disclaimer, poi sono affari tuoi. Che persino Voltaire avrebbe ceduto e affermato “Senti, va bene il rispetto delle idee, ma che cazzo stai dicendo?”.
Le questioni etiche, politiche, economiche e aziendali squadernate nell’ultima settimana sono numerose. La più lampante e cruciale riguarda la linea editoriale di Spotify. Che ruota intorno ai soldi, nella più semplice applicazione del concetto di capitalismo e mercato. I podcast, negli ultimi due anni, hanno rappresentato per la piattaforma una delle principali fonti di guadagno, con un circo di classifiche, ospitate, esclusive di alcuni autori che l’hanno portata a una trasformazione lenta (e traballante) in media company dell’audio (la riassume rapidamente qui Tom Moon). Tutto a discapito della promozione della musica, di cui si era originariamente fatta casa di diffusione, e proprio nel momento storico più tragico per l’industria musicale. Non esiste una linea editoriale o una presa di posizione che prescinda dai soldi. Il tutto mentre sull’altro versante ci sono i vasi di Pandora spalancati da cantanti e musicistə, che hanno apertamente denunciato le misere revenues percepite dagli artisti per gli ascolti su Spotify (in USA ha manifestato il sindacato dei lavoratori della musica, in Italia ci sono state iniziative di singoli musicisti, come la denuncia di Bebo de Lo Stato Sociale), contribuendo a sollevare dibattiti sullo sfruttamento eterno dell’arte musicale da parte dei grandi player del mercato. Che non sono più gli artisti, ormai costretti alle minime briciole dello streaming, e quanto mai lo sono le radio, appiattite su una concorrenza leale che le fa suonare tutte plasticosamente identiche — ne parleremo. A guidare e influenzare le spese sono le piattaforme stesse, tramite algoritmi e decisioni arbitrarie che puntano chiaramente a tenersi stretto chi garantisce loro di guadagnare, e chissenefrega se il fact checking lo buttiamo nel cesso quando ce n’è più bisogno. La musica pagherà pure, ma con la disinformazione si guadagna indubbiamente meglio.