Il basso sfasciato
la storia di una foto che doveva finire nel cestino e oggi sta in tutti i cestoni che si rispettino
Nota introduttiva
Nel novembre del 2021 ho aperto una pagina Instagram per raccontare alcune storie che avessero a che fare con la cultura dell’immagine applicata alla musica. L’idea era di mettere qualche storia, qui e là, senza troppo impegno, per tutto il tempo che sarebbe stato necessario. Per qualche motivo, e fatto salvo qualche generoso periodo di interruzione, è diventato un impegno quasi quotidiano. Questa settimana la pagina compie un anno e visto il mio grado di costanza nelle cose legate allo scrivere mi sembra una cosa totalmente insensata. La pagina si chiama Il Basso Sfasciato. Per festeggiare l’anniversario mi sono messo a scrivere la storia, in esteso, della foto che dà il titolo alla paginetta.
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Propongo in apertura, un finto sondaggio. La foto qui sotto è riprodotta nella copertina di un disco uscito nel 1979. Sapreste dirmi il nome della band e titolo del disco di cui parlo?
Mi spingo ad azzardare che il 97% delle persone che leggono questa mail abbiano risposto “sì”, pur se stiamo parlando di un album uscito 43 anni fa. Le ragioni per cui la conosciamo quasi tutti sono diverse, e sono tutte buone ragioni: abbiamo sentito il disco, nostro fratello o sorella maggiore ha sentito il disco, forse anche nostro babbo e nostra mamma. E anche se non fosse una questione di eredità, è citato in tutte le liste di album essenziali per la storia del Novecento. La stessa copertina è spesso elencata nel gruppo ristretto delle cover più belle/rappresentative/importanti della storia del rock. A volte al primo posto in assoluto. È stata perfino inclusa in una serie commemorativa di 10 francobolli della Royal Mail, editi nel 2010, che omaggia altrettante copertine che hanno fatto la storia del rock inglese. Una cosa su cui i fanatici della band forse hanno umori ambivalenti: magari non è un buon servizio alla spinta antisistema con cui il gruppo s’era inizialmente venduto, ma in fondo è sempre bello quando qualcuno, a distanza di 40 anni, ti dà ragione.
Studiando (si fa per dire) le storie delle immagini che hanno determinato l’immaginario musicale contemporaneo s’impara abbastanza in fretta una cosa: il caso regna sovrano e gli dèi della musica sono entità particolarmente bizzose. Molte delle copertine più classiche e famose della vostra collezione sono il risultato di una serie completamente assurda di eventi inaspettati, randomness e incidenti di percorso. La comune credenza che l’immagine sia tutto sommato un aspetto marginale della musica ha fatto sì che di molte immagini si sia persa la storia, e ricostruire a posteriori le vicende che (esempio) hanno associato un disco alla sua copertina è spesso quasi impossibile. “Non mi ricordo dove ho trovato la foto di quel tizio ma l’ho messa nella copertina e ho venduto un milione di pezzi ma il tizio s’è mai presentato a chieder soldi per violazione dei diritti d’immagine”. Capita di leggerlo. Dopo un po’ non ci si stupisce più: certe immagini hanno la loro storia e a noi non è dato conoscerla. A volte è come se gli dèi della musica avessero deciso di loro sponte di far piovere un disegno (o una foto, o un testo, o un ritaglio di giornale) nella copertina di un disco, e nessuno avesse trovato argomenti per opporsi. Questo impone di accettare che per molte immagini che hanno fatto la storia non ci sia una vera e propria storia da raccontare.
Della foto sopra, invece, sappiamo praticamente tutto. Sappiamo il nome della persona che la scattò. Sappiamo il nome della persona in primo piano. Sappiamo il nome del gruppo di cui fa parte. Sappiamo dove e quando fu scattata. Sappiamo perfino il modello della macchina che ha scattato la foto (una Pentax 35 mm), e il modello dello strumento che l’attimo successivo a questa foto verrà distrutto. Sappiamo il nome della persona che decise di metterla nella copertina del disco. Sappiamo il nome della persona che del disco curò la grafica. E sappiamo, ovviamente, tutto quel che è successo dopo la pubblicazione del disco e della relativa copertina, come si compete ad un album che entra da subito, e per sempre, tra i classici della musica contemporanea. Sappiamo, ad esempio, che è stata eletta best album cover of all time in un articolo di Q Magazine del 2002, che la definisce “the ultimate rock’n’roll moment – total loss of control”. Sappiamo tantissime altre cose. È un privilegio di cui l’immagine gode per via di essere entrata in un ristretto circolo di immagini che definiamo iconiche, una parola che in questo contesto credo significhi “molto conosciute”. È una cosa che mette luce, per contrappasso, su un altro aspetto fondamentale dell’immaginario visivo legato alla musica. Ci si concentra così tanto su un’immagine che sembra quasi obbligatorio lasciar perdere tutte le altre. Se fotografia e illustrazione sono aspetti marginali della musica, è abbastanza normale che l’iconografia musicale sia stata sempre percepita come un’iconografia di serie B. Ci sono stati sparuti tentativi, soprattutto nel passato recente, di canonizzare la pop-related art, ma il fatto che siano stati piuttosto modesti è testimoniato anche dal fatto che pop-related art non è un genere riconosciuto ma semplicemente una roba che ho scritto in corsivo. Ma d’altra parte parliamo di pezzi d’immagini distribuiti in migliaia, a volte miliardi, di esemplari. E quindi affidarsi al senso comune e all’istinto permette di stilare alcune regole con cui iniziare ad orientarsi e stilare un’estetica di massima. La prima in assoluto: non esiste una grande copertina senza un grande disco. Se spulciate le classifiche delle migliori copertine di cui parlavo in apertura, la top 20 è composta quasi solo da dischi largamente riconosciuti come capolavori: dischi il cui valore culturale è stato magari suggellato dall’involucro in cui erano contenuti, ma che anche senza quell’involucro sarebbe stato difficile da discutere. Suppongo sia la prima cosa che t’insegnano a un corso di design, anche se non ne ho mai fatto uno. E questo può essere visto tanto come un pregio quanto come un difetto, naturalmente: è nelle sacche a cui nessuno presta attenzione, ad esempio, che tende ad annidarsi la miglior creatività. Ma è innegabile che molte di queste immagini acquistino valore grazie al contesto in cui sono utilizzate e che fuori da quel contesto, magari, non avrebbero alcuna ragion d’essere.
La storia che provo a raccontare oggi è un esempio clamoroso di questo aspetto della cultura popolare. Proviamo ad immaginare, per esempio, che esista un universo alternativo, identico a questo in tutto e per tutto, tranne che per questa immagine di copertina. Un mondo in cui lo stesso disco è uscito ma con un’opera di Storm Thorgerson, o che so io. Domanda lapidaria: avremmo mai visto questa foto, il momento rock’n’roll definitivo? Mi permetto, umilmente, di dubitarne. Non possiamo escludere che sarebbe finita dentro qualche cartella di foto promozionali della band, e magari in una o due riviste musicali, ad addobbare un articolo di approfondimento sui Clash e perdersi tra le cento immagini uguali (tutti definitive rock’n’roll moments) che campeggiano nelle altre pagine. E si sarebbe persa. Oppure, con più probabilità, non sarebbe uscita nemmeno in quelle pagine. Non è un’ipotesi basata sul niente: è una supposizione fondata sul fatto che questa foto, nell’opinione della persona che l’ha scattata, è una foto impubblicabile. Sì, c’è una storia anche dietro questa cosa. No, non è una storia interessante, o comunque non è una storia destinata a cambiare il corso delLa Storia. Il punto a cui voglio arrivare: se non fosse finita al centro del contesto al centro di cui è finita, è probabile che questa foto non avrebbe avuto alcun significato. E quindi la storia di questa immagine diventa soprattutto la storia di come sia finita al centro di quel contesto, di quel processo, di quel disco, di quel gruppo e di tutto quell’immaginario. E c’è finita grazie a una serie di circostanze casuali che, a guardarci bene, non avrebbero mai dovuto verificarsi. Circostanze che comprendono episodi fortuiti verificatisi anche due o tre anni prima, e che il valore iconografico dell’immagine suggerisce essere stati le prime sliding doors che hanno fatto collassare una persona, un gruppo e forse un’intera visione della musica addosso ad un attimo decisivo, che è stato consegnato alla storia. Cerchiamo di spiegare. Iniziamo da una teoria, piuttosto banale e probabilmente forzata: la persona davanti all’obiettivo e quella dietro l’obiettivo non avrebbero mai dovuto incontrarsi.
LA PERSONA DAVANTI ALL’OBIETTIVO
Il nome della persona inquadrata lo conoscete tutti, anche se non si vede in viso. Paul Simonon è il bassista dei Clash fin dall’inizio, un personaggio leggendario che ha continuato a suonare anche dopo l’uscita dal gruppo e oggi è riverito tra i grandissimi dello strumento. Ma sappiamo tutti anche che nei Clash ci è entrato senza alcuna ambizione di far parte di una rock band -in effetti, ci è entrato senza aver mai preso in mano uno strumento musicale in vita sua. La storia è ben nota, ed è stata raccontata in ogni lingua del pianeta. Simonon nel 1975 è un ragazzo di vent’anni, matricola in una scuola d’arte a cui si è iscritto perché vuol diventare un pittore. Un personaggio eccentrico, anche per gli standard di una scuola d’arte: altissimo, snellissimo, indossa magliette decorate alla Jackson Pollock, s’infila in qualche occasionale casino. Viene notato in giro per i corridoi da un coetaneo, un rockabilly di nome Mick Jones, un tizio decisamente più regolare ma che ha le mani in pasta in diverse cose. Nell’iscriversi alla stessa scuola d’arte pensa una cosa, e una sola: metterò insieme una rock band. I primi tentativi sono andati a monte ma sta imparando. Lui e Simonon ci mettono poco a diventare amici. Poco dopo Jones conosce Keith Levene, un virtuoso della chitarra con un futuro incredibile davanti, e inizia ad abbozzare l’idea di un gruppo più radicale e sovversivo. L’idea che Mick Jones sottopone a Levene: sarà un gruppo in cui mischieremo musicisti e non-musicisti. L’idea vera di Mick Jones: Paul Simonon è troppo bello da vedere per non metterlo su un palco. Lo convince ad unirsi alla band, gli insegna i primi fondamentali del basso elettrico. Simonon imparerà strada facendo e si lascerà coinvolgere dall’etica marziale del gruppo; nel giro di qualche anno diventerà un vero bassista. Ma se Jones avesse dato retta a qualsiasi altra voce nella sua testa (buon senso, istinto, compagni di band), forse nessuno avrebbe mai sentito parlare di Paul Simonon. O magari sarebbe diventato un grandissimo pittore. Ma quella sera del 1979 non sarebbe stato su quel palco.
LA PERSONA DIETRO L’OBIETTIVO
È il 5 novembre del 1976, e questa sera i Clash suoneranno al Royal College Of Art di Londra. La band non ha ancora registrato una nota né firmato un contratto (lo faranno due mesi dopo con CBS), ma sta facendo parlare di sé per la bellezza dei suoi concerti. Il New Musical Express, che ai tempi è la rivista musicale inglese per eccellenza, sta pensando di mandare qualcuno a vedere il concerto, e magari metterci dentro qualche foto. È un lavoro di importanza secondaria, e quindi si rivolge a una freelance con cui collabora saltuariamente. È una donna di 27 anni e si chiama Pennie Smith. Sta sbarcando il lunario cercando di ingranare come fotografa; le riviste musicali pagano poco ma permettono una certa possibilità di sperimentare, esprimersi e cimentarsi con soggetti inusuali, portando comunque a casa due spicci. È l’unico motivo per cui Smith, tutt’altro che un’appassionata di rock’n’roll, si è messa a collaborare con la rivista. E a dire il vero al NME si sono innamorati del suo lavoro proprio per questa sua caratteristica. Il primo servizio per la rivista era stato un servizio fotografico per accompagnare un articolo su Alice Cooper, e lei aveva portato una serie di foto del gothic rocker mentre sorseggia un tè seduto a qualche tavolino londinese. È stato amore a prima vista. Così, quella sera, qualcuno dal NME chiama la fotografa a casa per chiederle di andare a fotografare i Clash. Ma quel giorno, purtroppo, Pennie Smith è costretta a rifiutare. È a letto con la febbre e il raffreddore, fuori fa freddo, sta piovendo a dirotto -un autunno inglese da manuale. Pazienza, si dicono al New Musical Express: non abbiamo nessuno che copra il servizio, sarà per la prossima volta. Ma nel tardo pomeriggio Smith decide di uscire comunque e andare al Royal College Of Art. Forse si sente un pochino meglio. Forse si sente in colpa. Forse ha bisogno di qualche spiccio extra. Fatto sta che s’infila di malavoglia un cappotto, esce di casa in una brutta giornata di pioggia, s’intrufola dietro le quinte ed entra nel camerino della band. Non sappiamo cosa si dicano e cosa facciano, lei e i Clash. Keith Levene è stato cacciato dal gruppo qualche settimana prima, e alla batteria non è ancora arrivato Topper Headon. L’incontro tra band e fotografa dura pochissimo: Smith scatta ritratti per cinque minuti e torna a casa sotto il piumone. Non ha la minima intenzione di rimanere per il concerto, probabilmente non se lo vedrebbe nemmeno se non fosse influenzata. Il giorno dopo sviluppa le foto scattate nei camerini del Royal College e le manda al NME. Da quelle foto inizia tutto: diventerà una delle migliori amiche della band, e la loro fotografa di riferimento. Al punto che quando il gruppo dovrà imbarcarsi in una serratissima tornata di concerti negli Stati Uniti, tre anni dopo, chiederà alla fotografa di unirsi alla spedizione e documentare il tour. E lei, ovviamente, accetterà. Ma è ragionevole pensare che se Pennie Smith avesse dato ascolto al buon senso, e avesse usato la sera del 5 novembre ’76 per riprendersi dall’influenza, non sarebbe stata sul palco del Palladium di New York il 21 settembre ’79.
IL BASSO SFASCIATO
Ci siamo, in ogni caso. 21 settembre 1979, Palladium, New York. Paul Simonon celebra il suo ultimate rock’n’roll moment, alza il basso sopra la testa e lo sfascia a terra. Il suo gesto finirà nel greatest hits delle distruzioni di set e chitarre assieme agli stunt del padre fondatore Pete Townshend alle devastazioni rituali con cui per tradizione i Nirvana chiudevano i loro concerti. Ma il contesto della rottura di quel basso è tutt’altro che un rock’n’roll moment. È uno sfogo piuttosto inusuale per il personaggio, per dirla tutta. Anche qui, le interviste che si susseguiranno nel corso degli anni ci permettono di venire a parte di qualche dettaglio divertente. Uno tra tutti: contando anche quello immortalato in questa foto, sapete quanti bassi ha sfasciato Paul Simonon in vita sua, compreso quello che ha sfasciato in quella foto?
Uno.
Ma quella sera sta andando malissimo. Dicevamo sopra: i Clash stanno suonando a New York, è il 21 settembre del ’79. Le performance dal vivo del gruppo hanno raggiunto uno status di culto: sono già considerati tra le migliori live band della loro epoca. Hanno fuori due dischi e non risparmiano una goccia di sudore. Ma quel pomeriggio c’è stato un casino con la security o l’organizzazione del concerto, e nel locale si è deciso che il pubblico dovrà assistere al concerto da seduto. Così i Clash si trovano, un po’ all’improvviso, a suonare un concerto per un pubblico di punk americani che sembrano guardarli come se fossero una filarmonica. Le registrazioni della serata (le trovate in giro) ci dicono che non si risparmieranno, tutt’altro; ma la frustrazione per una platea costretta alle panchine genera una frustrazione che è difficile. Simonon arriva alla fine del concerto incazzato come una biscia e sul finale non ha più controllo di sé. E in una mossa a cui nessuno del gruppo è abituato, decide di convogliare tutta la rabbia su un oggetto incolpevole: il suo Fender Precision Bass. La sua storia con quello strumento era iniziata un paio d’anni prima, più o meno a ridosso del primo disco. Nei primi anni aveva rimediato un basso economico, per imparare a suonare e mettersi dritto, ma mentre i Clash ingranavano si era convinto ad investire qualche soldo per affidarsi a uno strumento più professionale. Si trattava solo di capire quale facesse al caso suo, e non era stato così semplice. Si era invaghito delle forme dei modelli Rickenbacker, ma dopo averne provati un paio aveva deciso che il suono delle corde non fosse adatto al suo modo di suonare. Dopo qualche altro tentativo aveva avuto l’occasione di provare un Fender Precision, e se n’era innamorato per via del suono più caldo e avvolgente, molto più vicino a quello che ascoltava nei dischi reggae di cui era avidissimo consumatore. Ma quello che distrugge la sera del 21 settembre è il suo unico Fender Precision, e si pentirà di averlo spaccato ancora prima che i pezzi abbiano finito di depositarsi a terra. Raccoglierà lui stesso i pezzi dello strumento, e li metterà dentro una cassetta per riportarli a casa. Come un amante pentito. Per il resto del tour americano dovrà suonare un basso di riserva, odiandone il suono. Tornato a casa si procurerà un altro basso identico a quello che ha distrutto, e non se ne staccherà più: continuerà a suonare e conservare gelosamente lo stesso strumento per tutti i decenni a venire (lo imbraccia in un’intervista risalente al 2011 che trovate su YouTube, e per quanto ne so lo suona ancora oggi). Non ha mai più rotto un basso. Il totale del tempo che ha passato a sfasciare bassi ammonta al secondo e mezzo che è servito a farlo entrare nella storia.
LOGISTICA
Come dicevamo in apertura, di questa foto sappiamo davvero tutto. La sua genesi è stata raccontata da diverse persone in momenti diversi, e l’accumularsi di interviste e racconti ex-post ha permesso anche di ricostruire una storia abbastanza verosimile (con qualche discrepanza nei particolari tra una versione e l’altra) di tutta la logistica dello scatto. Un aspetto marginale della faccenda: se le cose andassero come vanno di solito, Pennie Smith non dovrebbe essere in quel punto del palco. Fotografando i Clash decine di volte dal vivo è diventata quasi un membro occulto della band, e ha sviluppato una routine abbastanza fissa per quanto riguarda i suoi scatti che le permettono di catturare immagini per tutto il concerto senza impattare sulla performance del gruppo. Nel novanta per cento dei casi si alterna tra il fronte del palco e il lato destro, leggermente sul davanti, vicino a Mick Jones: il punto esattamente opposto a quello in cui si trova in questo momento. Ricostruendo l’episodio, non ricorda perché in quel momento si trovi in quel punto. Ma ci si trova. E Paul Simonon sta venendo verso di lei. Ce l’ha proprio di fronte, e la frustrazione accumulata dalla band lungo la serata le fa intuire che se si fa trovare pronta al momento giusto, beh, potrebbe venir fuori una gran bella foto. Così, nel secondo scarso che ha per riflettere, decide di regolare la macchina in fretta e furia (una Pentax 35 mm) per una foto in primo piano. Ma nel momento in cui ha settato la macchina e ha poggiato il dito sul pulsante per esser pronta, Paul Simonon esce di testa. Alza il basso e lo schianta contro il pavimento del palco, proprio davanti a lei, ma più distante di quel che dovrebbe essere. Pennie Smith non è pronta a scattare una foto in campo lungo. Ma Paul è dentro il mirino, e il dito di Pennie è sul pulsante, e lei si spaventa, e le parte un colpo. Un solo scatto, involontario, mentre Simonon fa volare il basso in aria. Poi continuerà a scattare.
VOLONTÀ
Il tour americano dei Clash ha ritmi piuttosto serrati. La settimana è stata piena di concerti in giro per la East Coast. Ora ci sono tre day-off, e poi il gruppo passerà il confine canadese per un paio di serate, e poi tornerà per tre settimane di concerti negli States. Si può solo immaginare la routine giornaliera della band, probabilmente scandita da qualche impegno per promuovere il tour, e magari parlare del disco che tra poco dovrebbe uscire. In quei pochi giorni newyorkesi il gruppo ha modo di svagarsi per qualche ora, e la stessa fotografa consegnerà ai posteri un pugno di foto leggendarie della band, scattate in giro per le strade della città. Pennie Smith sviluppa le foto in progress, man a mano che il gruppo va avanti. Anche qui, c’è solo la possibilità di immaginare. E uno s’immagina camere oscure improvvisate nei cessi di qualche albergo di seconda mano, dove il tour manager ha piazzato la band. Dettagli. Ma il tempo per lavorare è tirato all’osso, senza troppa possibilità di selezionare e mettere in ordine i pensieri, o ragionarci a mente fredda. La routine con le foto, invece, è abbastanza nota: pare che vengano visionate sul pullman, nei viaggi tra una città e l’altra, in modalità-cazzeggio. A volte lei ne segnala qualcuna che le sembra più bella o significativa, a volte no. Quel giorno, sul pullman, i Clash stanno spulciando a una pila di fotografie scattate negli ultimi giorni. Forse sono in viaggio per il Canada. Probabilmente è il 24 settembre. A un certo punto una foto sgranata di Paul col basso in aria finisce in mano a un altro membro della band. Sappiamo anche il suo nome, ovviamente: si chiama John Graham Mellor, e tutti lo conoscono da anni col nome di Joe Strummer. Guarda la foto per un secondo e dice a tutti “questa va sulla copertina del disco”. Non mette un punto di domanda, non mette ai voti l’istanza. Ha deciso.
E sì, c’è un disco in uscita. La band ha chiuso le session di registrazione pochi giorni prima di partire per gli Stati Uniti. Un tour de force memorabile, cinque o sei settimane di lavoro a ritmi massacranti -anche 18 ore al giorno, per chiudere tutto, andare in tour e avere un disco pronto prima di fine anno. È un disco che fotografa i Clash nel loro momento di massima ispirazione, sia individualmente che come gruppo. È un album che pensa in grandissimo. Uno dei primi dischi che, in un contesto major, si permettono di applicare lo spirito del punk rock ai cliché del punk rock. Un doppio album, per giunta, in cui nessuno dei pezzi somiglia agli altri, e che affronta una varietà estrema di tematiche e soluzioni musicali. Un disco che sprizza ambizione ad ogni secondo di musica. Forse anche un’ambizione commerciale, ma non solo: l’idea di poter cambiare la musica, in qualche misura. Ma cosa c’entra, con tutta quest’ambizione, la foto di un musicista scheletrico che sta sfasciando il suo basso? Forse niente. Forse, in effetti, è l’esatto contrario di quel che la musica potrebbe voler comunicare. Forse l’immagine sembra arroccarsi sui cliché di quell’anarchia punk rock un tanto al chilo da cui la musica dei Clash sembra voler fuggire a gambe levate. Ma Joe Strummer non riesce a togliere gli occhi dalla foto.
Nel pullman c’è almeno un’altra persona che condivide il suo entusiasmo. Non fa parte della band. Si chiama Ray Lowry, di lavoro fa il fumettista e anche lui per il NME. Ma a differenza di Pennie Smith è un rockettaro fatto e finito, che è stato fulminato dalla prima ondata del punk rock e si è speso per diventare uno dei principali supporter/amici/cicisbei dei Clash, ancora prima che si mettessero a pubblicar dischi. Caso vuole che i Clash gli abbiano affidato il compito di pensare una copertina per il nuovo album. Ma la foto ha tolto l’incombenza: da qui in poi c’è solo da pensare a dove mettere il nome del gruppo e il titolo del disco. L’accordo viene presto raggiunto: l’entusiasmo di Strummer e il sostegno di Lowry hanno fatto tutto il lavoro. C’è solo una persona che continua ad opporsi con tutta la forza che ha. Una cosa un po’ grottesca: è proprio Pennie Smith, la persona che quella foto l’ha scattata. Lo racconterà più volte nel corso degli anni, e ancora oggi confessa di avere un rapporto piuttosto controverso con quell’immagine. Bisogna comprenderla, o almeno credo: il suo occhio è più coinvolto del nostro, e in quel momento sta facendo un lavoro preciso. Mettiamo le cose più in prospettiva, grazie a una coscienza che lei e il gruppo in quel momento non possono avere: sarà ricordata per sempre grazie a una foto che non incontra i suoi criteri di pubblicazione. È fuori fuoco, è mossa, con una composizione troppo incasinata. E poi è troppo anonima, dice Pennie: non si vede nemmeno la faccia di Paul, potrebbe essere letteralmente chiunque. Ma forse a Joe Strummer piace proprio per quel motivo: potrebbe essere chiunque. E Mick Jones ha mosso mari e monti per avere Paul nei Clash, perché è troppo bello da vedere. Smith è in minoranza, e non è il suo gruppo. Accetta di buon grado e passa oltre. Ma rimane un dubbio: forse, se avesse avuto più tempo per sviluppare e valutare, avrebbe scartato lei stessa quella foto, e Joe Strummer non l’avrebbe mai vista.
Poco importa, in ogni caso. Abbiamo la copertina del disco. è come se gli dèi della musica avessero cospirato e mosso dei fili invisibili per portare il gruppo a quel momento. Lowry aggiungerà il tocco da maestro: ruberà il lettering al primo disco di Elvis Presley e lo userà per scrivere il titolo dell’album, in omaggio ai generosi agganci dei “nuovi” Clash con la tradizione rock’n’roll americana. Il disco è pronto.
EPILOGO
La band finisce il tour americano a metà dell’ottobre del 1979. Tornerà a casa e si preparerà all’uscita del suo terzo disco. Paul Simonon imbarcherà tutti i pezzi del Fender Precision che ha distrutto la notte del 21 settembre al Palladium, e comprerà un modello identico da cui non si staccherà mai più. Qualche decina d’anni dopo donerà i pezzi del suo basso sfasciato ad un museo. La fotografa e l’illustratore torneranno ai loro lavori e continueranno a frequentare i Clash negli anni successivi. Pennie Smith non ama prestarsi ad interviste, si dice in giro; e ancora oggi, quando ne concede una, non è disposta a parlare di quel giorno, ormai vent’anni fa, in cui venne a sapere che Joe Strummer se n’era andato per sempre. Dice che fa ancora troppo male. I Clash esisteranno per cinque dischi in totale, più uno senza Mick Jones che non conta per davvero. I membri della band continueranno a fare musica, a vario titolo. Tre mesi dopo il concerto al Palladium di New York, in ogni caso, in Gran Bretagna è uscito il terzo disco della band. Siamo a metà del dicembre del ’79, e servirà qualche settimana per vederlo uscire nel resto del mondo -generando un equivoco, dovuto al valore del disco e al fatto che non sia ben chiaro se sia da inserire tra i migliori album degli anni settanta o tra i migliori album degli anni ottanta. Lana caprina: in entrambe le liste fa bella figura. Il disco porta in copertina una fotografia che la stessa fotografa avrebbe voluto cestinare, scattata per sbaglio da una posizione in cui non avrebbe dovuto trovarsi; una foto in cui un musicista che non avrebbe mai pensato di iniziare a suonare sta per compiere un gesto che non ha mai compiuto e non compirà mai più. Il disco si chiama London Calling.