“Ripetutamente è stata sostenuta l’idea, in particolare da parte di John Lennon dei Beatles, che questo culto della chitarra elettrica e degli ancheggiamenti abbia sostituito completamente il cristianesimo nel ruolo di fede presumibilmente dominante e più fervida in Occidente. Quest’accusa sembrava particolarmente appropriata ai tempi della “Beatlemania”, uando questi passatempi così differenti tra loro dovevano contendersi l’attenzione della gente. Ai giorni nostri è un argomento futile, dal momento che il cristianesimo è diventato una posa da nostalgici dei vecchi tempi, come gli apparecchi per radioamatori e i dispenser di caramelle Pez, con i membri superstiti del culto che si sgolano per difendersi da un’estinzione sempre più imminente e inevitabile.”
Ian Svenonius
Il Soviet Psichico
(2021, Double Nickels Edizioni)
(la premessa è necessaria: non sono un fan dei Beatles. Non li odio, non sono un hater, non credo siano stati insignificanti, ma non li amo nemmeno troppo. Ho ascoltato (tutti) e possiedo (non tutti) i dischi di studio: li adoro per una canzone, li sopporto per due, mi innervosisco alla terza canzone. Questo per molti è sinonimo di totale incompetenza musicale, e se è il vostro caso è ragionevole che troverete tutto quello che scrivo sotto un coacervo di idiozie scritte da una persona che non capisce un cazzo di dischi. Non è mia intenzione offendere nessuno, quindi magari non leggete questa cosa sotto)
(grazie)
Get Back è un prodotto audiovisivo con dei limiti oggettivi, che con tutta probabilità sono parte integrante del fascino del film, o forse addirittura il suo principale pregio. Un film come Get Back non è pensabile se non per i Beatles. Get Back è un film di otto ore (lo riscrivo: otto ore) su un gruppo che ha accettato di filmarsi durante la preparazione di un disco/concerto e si trova costretto, in maniera non troppo inaspettata, ad osservare da protagonisti/spettatori uno dei momenti chiave del proprio disfacimento. Dal punto di vista storico e musicale è un documento di valore inestimabile o l’apoteosi di tutto ciò che nella musica è pleonastico e privo di valore. Se qualcuno producesse lo stesso identico documentario su qualunque altro gruppo (dai Men’s Recovery Project ai Radiohead, poco importa) a un certo punto sarebbe costretto a chiedersi chi sono le persone a cui il film è destinato. Anche pensando ad alcuni degli artisti/dischi il cui processo produttivo mi incuriosisce di più nel presente o nel passato recente (boh?, Kanye West, Frank Ocean, The Knife, The Ex, non so nemmeno io chi altro), non credo che sarei disposto ad osservarli per otto ore (lo riscrivo: otto ore) mentre lavorano ad opere che ascoltare mi ha spazzato via. Sono gusti. Perfino per i Rolling Stones, il nome più immediatamente associabile ai Beatles, non credo che un corrispondente di Get Back sia pensabile al di là della cerchia dei cultori che considerano possibile l’acquisto di un box set di 12 dischi con le session di Exile. La ragione principale è che i Rolling Stones sono considerati parte del presente della musica, in qualche forma, e a loro non si è ancora pensato con quel quieto sentire a metà tra il rispetto per i defunti e la pornografia del dolore che circonda il Beatles dal giorno dell’omicidio di John Lennon -forse pure da prima.
(La sindrome di Jeff Buckley: per tot ore di materiale edito da un musicista sono disponibili tot X N ore di materiale inedito, fondi di magazzino, che aspettano solo un tenutario dei diritti senza senso della misura per uscire ed annacquare il brodo)
Mi pare sia stato sul Castoro dedicato a Orson Welles che lessi per la prima volta di questa cosa dell’infilmabile, nel senso di una cosa del reale che il cinema, per i limiti artistici in cui è costretto, non riesce a mostrare. Orson Welles sosteneva che c’erano due cose che il cinema non era in grado di mostrare: il sesso e pregare Dio. Suppongo che dagli anni quaranta ad oggi sul mostrare entrambe le cose si sia fatto qualche progresso, soprattutto sulla prima (la seconda staccava pochi biglietti già ai tempi di Orson), ma l’idea de l’infilmabile continua ad essere una delle principali ossessioni dei registi più ossessivi. Tra i viventi è difficile trovarne uno più ossessionato dall’infilmabile di Peter Jackson. La principale chiave di lettura di Get Back, per quel che mi riguarda, sembra risiedere più in questo tentativo di spiegare il genio mettendolo in mostra. I motivi per cui la gente che conosco ha amato così tanto Get Back hanno molto a che fare con questa cosa, che volendo è molto spiegabile: sembra di vedere un gruppo di universitari alle prove del venerdì sera, ma i riff su cui stanno lavorando sono versioni embrionali di Let It Be, e un briciolo di fascino questa cosa deve averlo. La persona che sembra uscirne meglio è non a caso Paul McCartney, uno scrittore che lavora sull’istinto e si lascia trascinare dal momento. La band jamma dritto, lui s’inventa in corsa la melodia di Get Back, sorridono tutti, provano a costruire qualcosa coi cori, si fermano dopo un minutino e qualcuno blatera tra sé e sé perché non c’è ancora il testo finito.
Ho visto qualche mese fa, per la prima volta, un film di Danny Boyle intitolato Yesterday. Una commedia abbastanza brutta (confesso in effetti di averlo visto perché il mio amico Massimo nei giorni di Clubhouse lo ha definito “il peggior film sulla musica mai realizzato”). Parla di un cantautore sconosciuto che dopo un piccolo incidente in bici si risveglia in un mondo nel quale nessuno ha mai sentito parlare dei Beatles. Nel senso, è un mondo esattamente uguale ad oggi in cui tutte le persone si conoscono come si conoscevano il giorno prima, ma senza Beatles. Si basa su uno dei più comuni elseworld del pop. Cosa sarebbe successo al mondo della musica se John Lennon avesse fatto il pescatore? Non si sa. Il film non offre una soluzione alla cosa: il mondo di Yesterday è identico se non per piccoli dettagli senza senso -non ci sono stati gli Oasis, ma Ed Sheeran sì. La tesi informale del film è che visto che Ed Sheeran arriva comunque, tanto vale combattere la quotidianità con un po’ di bellezza e suonare She Loves You come se fosse un inedito. Il cantautore sconosciuto inizia a suonare le canzoni dei Beatles, spacciandole per sue, e diventa l’artista più importante della storia del pop, alla fine degli anni dieci. Quello che infastidisce qui è il falso storico: non sappiamo cosa sarebbero i Beatles senza i Beatles ma siamo certi di vivere in un’epoca dove volenti o nolenti siamo stati scolarizzati all’idea che tutto sia già successo in una forma migliore e più completa di quella che stiamo vivendo, e che i Beatles siano l’oggettiva dimostrazione che questa idea risponda al vero. E quindi Yesterday è sicuramente per molti versi un brutto film, ma per altri versi è solo l’ennesima emanazione ideologica di un sistema di pensiero secondo cui un documentario di otto ore (lo riscrivo: otto ore) sui Beatles che lavorano a tre o quattro canzoni sia non solo pensabile ma anche molto atteso, persino dal pubblico generico. E allora Yesterday è la risposta immaginaria all’irrisolto immaginario di un sistema culturale che percepisce la propria incompletezza nell’essere stato privato di una figura troppo centrale del suo pantheon, e in questo mondo di gente che ha dimenticato i Beatles la missione divina di chi per qualche motivo ha la capacità naturale di ricordare i Beatles è quella di ricreare i Beatles, non tanto di ricreare la loro musica ma di rimettere al centro della cultura la loro centralità culturale.
Un punto di vista molto interessante l’ho letto oggi sull’instagram di Marina Pierri: “Non ricordo un singolo natale in cui non sia venuto fuori un cofanetto inedito, una raccolta, un libro incredibile, una novità qualsiasi legata ai Beatles che ad oggi rappresentano uno dei connubi più pazzeschi in termini di arte e capitalismo (competono solo con il mondo Disney)”. Non riuscirò mai ad insultare abbastanza Marina per aver smesso di scrivere di musica. Vale la pena di riflettere su questo oggi che la fusione Disney/Beatles ha portato il takeover culturale ad un livello inedito, tra l’altro a un anno di distanza dal giubileo critico in occasione del quarantennale della morte di Lennon (ma non più di tre-quattro mesi fa è uscita, sempre su piattaforma Disney+, la docuserie McCartney 3,2,1, in cui il bassista dei Beatles si abbandona a memorie ed analisi sulla sua carriera assieme a Rick Rubin) nel quale non c’è limite alle ipotesi di sfruttamento del catalogo Beatles e della inesauribile miniera di inediti che sembrano ancora sepolti sotto il culo di ogni abitante della città di Liverpool. Non è impensabile una versione extended di Get Back lunga il doppio di quella presente, e del resto i titoli di testa delle puntate della serie chiedono preventivamente licenza al pubblico per l’editing (otto ore piene di parti oggettivamente lentissime in cui non succede assolutamente nulla e ci si trova ad ammirarei completi di George Harrison per ammazzare il tempo, come dice sempre Marina, evidentemente a qualcuno potrebbero sembrare tirate via per esigenze di spettacolo) (lo riscrivo: otto ore).
Forse il problema è la promessa dei Beatles. Nella loro musica e nella loro biografia abbondano i momenti in cui, volenti o nolenti, hanno provato a cambiare le regole del gioco. Che le regole del gioco siano state scritte per grossa parte da loro e dal loro entourage non sembra una questione rilevante: il fatto di aver inseguito un destino diverso da quello che sembravano essersi scritti, e di essere in qualche modo riusciti ad avere la meglio, ha dato l’illusione di una specie di scambio alla pari. In un mondo in cui tutti avrebbero dato tutto quel che avevano per essere i Beatles, i Beatles avrebbero dato tutto per essere qualcun altro. E che quindi in qualche misura, finché la musica rimane loro, rimarrà anche nostra. O almeno questo è il principale insegnamento che sembra venire fuori da un film come Get Back, ad oggi l’opera in cui la componente regaz della band è probabilmente più alta. Ma in questo perpetuarsi dell’idea storico-culturale dei Beatles come centro del mondo in cui viviamo ci si trova spesso, se non si è parte del culto integralista di Lennon/McCartney/Harrison/Starr, a chiedersi cosa sarebbe un mondo senza i Beatles. Non tanto senza la loro musica quanto senza l’idea che sia possibile ricondurre tutto alla musica di un solo gruppo che può permettersi, per brevi lassi di tempo, di esistere come l’unica proposta culturale del sistema occidentale.
Non sono gli unici ad averci provato, sia ben chiaro. Il presente trabocca di esempi forse perfino più pericolosi e problematici, e basta sfogliare i disastrosi cataloghi delle piattaforme di streaming video per accorgersene -prodotti come Five Foot Two (Gaga), Miss Americana (Taylor Swift), Homecoming (Beyonce), Supersonic (Oasis), Some Kind Of Monster (Metallica) e centinaia di altri sono patetici tentativi degli artisti di dipingere autoritratti supereditati con la forza dell’oggettività delle immagini e l’aiuto delle tenebre tra una scena e l’altra. Ma nessuno di questi artisti, nemmeno Taylor Swift, riuscirebbe a vendersi in una docuserie di otto ore (lo riscrivo: otto ore) in cui non succede niente e da cui alla fine escono fuori tre pezzi, men che meno contro la sua volontà (come i Beatles) e creando un caso cinematografico che fa discutere per mesi (come i Beatles). E allora davvero, in questo senso, l’agghiacciante stasi di Get Back sembra avere a che fare con un carcere delle idee, uno dei documentari musicali più pericolosi del presente, una vecchia/nuova concezione di totalitarismo musicale alla quale per l’ennesima volta saremo costretti a sacrificare un pezzo del nostro immaginario, e forse il senso stesso di possibilità legato alla musica dell’oggi, in cambio del tepore di una stanza in cui quattro amici-ex-amici che provano a far uscire fuori delle canzoni che -spoiler- alla fine usciranno davvero. Pornografia del dolore, dicevo appunto