Delso
“Ne sono fuori, allora? No, scrivendo non mi sono cambiata in bene: ho solo consumato un po’ d’ansiosa incosciente giovinezza. Che mi varranno queste pagine scontente? Il libro, il voto, non varrà più di quanto tu vali. Che ci si salvi l’anima scrivendo non è detto. Scrivi, scrivi, e già la tua anima è persa.”
Italo Calvino, Il cavaliere inesistente
“Un mondo senza Bill Callahan non andrebbe nemmeno immaginato.”
Marco Delsoldato
Qualche volta mi capita ancora. Sempre meno, ma succede. Ho messo giù la prima stesura della recensione, la rileggo, la cancello, capisco più o meno quale chiave voglio darle e per qualche istante mi trovo a pensare che questa sarà la cosa più bella e più giusta che scriverò mai, e tutti la leggeranno, e capiranno che non c’è più niente da dire. Poi naturalmente la recensione esce sulla rivista e va come sempre - è una cazzo di recensione, nessuno le legge, nessuno recepisce e c’è quasi sempre un errore di grammatica imbarazzante nel secondo capoverso. Alla faccia. Altre volte, addirittura, mi illudo che le cose che scriviamo siano in qualche modo destinate a questo oblio contemporaneo per poter trovare il loro pubblico in futuro: un giorno qualcuno prenderà un vecchio numero di Rumore dallo scaffale e si ritroverà in qualcosa che ho scritto di un disco che nel frattempo ha ascoltato. Non succede nemmeno questo. Con internet, tra l’altro, ancora meno. I tempi dell’obsolescenza sono spietati, la nostra coscienza culturale fatica a tenere il passo e le chiacchiere sulla musica durano giusto il tempo di far finire il disco in sottofondo -è frustrante, o almeno per me è frustrante. Così in queste sere avevo pensato di raccogliere un po’ delle cose che Delso aveva scritto, giusto per far vedere che. Ma in giro non se ne trovano più molte, e quelle che si trovano credo che in qualche modo non gli rendano pienamente giustizia. Vabbè. La sera in cui l’ho conosciuto di persona eravamo a Ravenna, sul palco quella sera forse c’era Casiotone For The Painfully Alone. Scrivevamo entrambi di musica e credo avessimo più o meno letto quello che aveva scritto l’altro. Io scrivevo di più, lui scriveva meglio. Amava il postrock, soprattutto, e ovviamente occorre intendersi sul significato della parola, a patto di non lasciar sfuggire qualche caposaldo non negoziabile -lo sfottò che ripeteva sempre, per quella volta che Diego aveva saltato il concerto degli Shellac per vedere “un gruppo coi violini”. Dicevo, Delso ha scritto tanto, e ha scritto delle pagine che per me sono state importanti. Ai tempi di Vitaminic mise online un ricordo di Jason Noble che mi aveva spezzato in due, e quel ricordo ora non c’è più -l’obsolescenza di internet ha cancellato tutto quel novero di cose, o quello che aveva scritto per una webzine che si chiamava Kronic e posti simili. Forse da qualche parte mi è rimasto qualche numero di Losing Today, effimera pubblicazione cartacea dei primi duemila, ma non ho davvero voglia di scendere a controllare tra gli scatoloni e la polvere.
Dicevo, effimero. Scrivere di musica è la manifestazione fisica del bisogno di far conoscere agli altri la propria passione -getti un’esca e tutti quelli che abboccano sono anime gemelle potenziali. È un affare delicato che ha a che fare con un senso di appartenenza che a qualcuno, semplicemente, non riesci a spiegare -è difficile far capire che, per molti versi, nella nostra miglior versione siamo la musica che ascoltiamo con più trasporto. In questa cosa Delso era il migliore di tutti, e non credo che riuscirò mai più a riascoltare alcuni dei miei dischi preferiti (Rachel’s, Slint, For Carnation, Shannon Wright, Mogwai, Papier Tigre, Arab Strap, Tindersticks, potrei andare avanti fino a domani) senza pensare a lui. Leggendo le cose che scriveva il suo amore per la musica era alla luce del sole, ed era intenso, e poco visibile a chi non condividesse quei capisaldi di cui sopra -certi crescendo dei Mogwai, certi tempi dispari dei June Of 44, certe schitarrate di Steve Albini. Ma del resto Delso era un puro, e l’amore per la musica usciva fuori anche solo ogni volta che apriva bocca. Così di Delso più che le cose che ha scritto mi viene spontaneo ricordare le cose che ha detto, e quella voce lì, e quella parlata lì, e ovviamente quella erre moscia che montano addosso a tutti quelli di Parma e gli occhi che sembravano illuminati e un milione di aneddoti accumulati all’ennesimo ATP o Frequenze Disturbate o quel che era, e il privilegio di aver potuto ascoltarli, e quanto cazzo era divertente. E i pranzi e le cene al Pancotto di Gambellara, il posto a cui mi viene più facile associarlo. Nella sua descrizione, “un circoletto gestito da brave persone (amiche del fumo e del PRI delle origini) dove si mangia assai bene e si beve anche meglio”.
Marco Delsoldato, per tutti Delso, ci ha lasciati questa settimana. One less heartless to fear.