Nella classifica che ho consegnato il disco che ho messo al primo posto è This Could Be Texas degli English Teacher. È un disco che ha molti punti di forza e molti punti deboli, o almeno io l’ho vissuto in questa maniera. È un disco benissimo scritto e benissimo suonato e con tantissime idee, e questi sono i lati oggettivamente positivi. Quelli oggettivamente negativi sono la palese mancanza di ambizione e il palese bisogno di suonare più piccoli di quel che gli English Teacher sono, forse per una questione di prudenza (nominalmente è il disco d’esordio e forse ha senso andarci piano). Poi devi decidere se la positività e la negatività oggettive sono uguali a quelle soggettive e i momenti di fragilità del disco sono quelli che mi portano più spesso ad ascoltarlo. Mi sento comunque abbastanza tranquillo nel rilevare che il mio bisogno di musica piccola e fragile sia condiviso in minima parte dal mondo della musica in generale. Intanto perché il disco degli English Teacher è un disco di successo e di cui si è parlato e che ha fatto tanti proseliti, ma al di là di questo sembra che in giro il massimalismo e la protervia stiano iniziando a stancare tanta gente. Forse qualcuno di voi lungo l’anno si è chiesto (o quantomeno io l’ho fatto) dove sia andato a finire il rap, il quale ovviamente esce ancora in quantità e in qualità, ma nei piani alti del pensiero musicale sembra essere diventato un po’ troppo scomodo da maneggiare. E quindi dischi che teoricamente avrebbero dovuto spaccare a metà l’immaginario, come Kendrick Lamar o Tyler, si sono trovati per molti versi a dover correre la corsa dei dischi qualunque, forse belli e forse no, forse importanti e forse no. Potrei sbagliarmi. Musicalmente gli English Teacher celebrano anche un momento di libertà del rock inglese che sta timidamente trovando i suoi eroi (guardate anche a quante classifiche hanno messo in alto gli Still House Plants, per dire di un disco che poteva entrare nella mia top ten e poi purtroppo è rimasto fuori), quasi tutti legati a una tradizione a qualche titolo ‘postrock’, molto spesso americanista, che mi sembra essere in grado di prendersi il tempo di riflettere sulla musica, sulla necessità di farla e magari un bisogno sempre più urgente di non farla, di suonare il silenzio -sto partendo per la tangente, scusate.
Comunque questo bisogno di piccolo si manifesta negli altri due dischi della mia top tre. Il secondo è quello degli Shellac, di cui ho parlato nello scorso episodio, mentre se qualcuno è interessato a un approfondimento sul disco di Charli XCX, che viene terzo, può recuperare il numero della newsletter Bengala di Ray Banhoff uscito sabato 7 dicembre, a cui ho mandato un contributo. Mi limito qui a ribadire come BRAT abbia sancito più di tutti il bisogno di una musica pop piccola e a misura d’uomo che rigetti le convinzioni e celebri le contraddizioni, una musica che sia musica di tutti i giorni e accorci un pochino le distanze tra chi la fa e chi la ascolta. Non ho idea del perché i Karate abbiano deciso di intitolare il loro ultimo (splendido) disco Make It Fit, e quindi nella mia testa è una celebrazione di questo, l’invito a rimpicciolire la musica abbastanza da far sì che possa entrare dentro lo zainetto e venirsene in giro con te, e quindi i Karate sono nella mia lista. Non c’è Cindy Lee, tra i nomi più celebrati in giro, ma in fondo anche Cindy Lee è un artista che celebra questa dimensione umana da cameretta, sicuramente barocca nei risultati ma anche molto distante dalla pubblica piazza e da tutte le sovrastrutture. Però nella lista che ho consegnato ci sono le Olympia Mare, un disco veramente minuscolo che mi ha sterminato il cuore e continua per qualche ragione a passare per le cuffie. Altri dischi che ho messo in lista sono quello di Beth Gibbons, di cui non voglio parlare perché credo sia una cosa personale mia (ma nelle ultime settimane Kim Deal ha fatto un disco molto diverso e molto simile); gli Staples Jr. Singers, che al di là della bellezza della musica in sé celebra soprattutto le potenzialità della musica nei nostri giorni, e la sua capacità di vincere partite contro il tempo che fino a qualche tempo fa erano date per ingiocabili (ne ho parlato in un articolo, se vi interessa).
Sto pian piano riscoprendo l’amore per il metal, una cosa che sentivo di aver lasciato per strada qualche anno fa. Più esattamente ho riscoperto l’amore per il non-metal, per tutta quella musica al confine tra metallo e altre cose, e che ha sempre più diritto di farsi chiamare avanguardia, e sarà pure il caso ma quest’anno è stato ricco di dischi che ho sentito il bisogno di ascoltare spessissimo (i due dischi dei The Body, soprattutto quello senza Dis Fig; Scope Neglect di Ben Frost, l’album dei Big|Brave che confermano il bello che abbiamo detto di loro lo scorso anno, e perché no Machine di The Bug che è comunque imparentato con la casa). Molta dell’elettronica che ho ascoltato (e quest’anno ne ho ascoltata pochissima) risuona in qualche modo di questo approccio, e quindi Jlin e Ghost Dubs e altre cose ma soprattutto il box riassuntivo dei Sandwell District, poi ovviamente le cose più roots riddim (Egoless, Lee Perry, Scientist). Dal lato hip hop mi sono fatto consumare dai dischi di Kneecap ed Elucid (che stanno tranquillamente nel giro di dischi di cui a due righe fa) e a quanto pare l’album che ho ascoltato di più fuori dalla mia top 3 è il disco dei Club Dogo uscito a maggio (che è un miracolo, o almeno io l’ho vissuto come un miracolo). Ma se facciamo una questione di volumi d’ascolto, di dischi che entrano nello stereo con frequenza da psicanalisi, mi arrendo all’evidenza e registro un bisogno di tornare all’indierock che si è portato via tutto l’anno. Anche qui suppongo sia legato a quella cosa della musica a misura d’uomo e al make it fit. Gli Shellac prima di tutto e sopra a tutto. Karate, Moin, Mount Eerie, Sour Widows, Pedro The Lion, Angie McMahon (intendo l’EP, o più esattamente una canzone dell’EP che si chiama Just Like North e che devo ancora ascoltare con frequenza quotidiana), Mabe Fratti, ma anche God Bullies, Eye Flys, Claire Rousay, il live di Bill Callahan, il disco di Alan Sparhawk e me ne scordo un milione. In Italia Bulgarelli, Disquieted By, già detto di Olympia Mare, Arianna Pasini, Any Other. La chiudo qui e continuiamo a ragionare sul resto quando abbiamo altri dieci minuti.