BPP Recap 24 #1: LA VIA DEL RABAZIERE
La mia canzone dell'anno non figura in molte playlist, a quanto pare
Nota di utilizzo: questo vuol essere il primo episodio di una serie con cui vorrei fare una sorta di recap di quello che è successo nella musica lungo l’anno, ma ultimamente sono un po’ inaffidabile ed è probabile che gli altri episodi della serie non ci saranno.
O Pitinho Piu è una canzone-filastrocca brasiliana che risale più o meno alla metà degli anni ottanta e che -in un paio di versioni dell’epoca che ho sentito distrattamente su YouTube- potrebbe non sfigurare in una buona raccolta di groove latini casuali che amiamo di tanto in tanto mettere in streaming, per accompagnare quei momenti in cui ci rendiamo conto di aver accumulato troppe lavatrici da stirare. La canzone deve la sua fama a una versione pubblicata sul tubo nel 2011 da un bambino brasiliano (che mima in favore di telecamera il testo della canzone ultra-velocizzato), a quello che succede nelle settimane successive (la memificazione del video genera una specie di Pitinho Piu challenge) e soprattutto all’adattamento in italiano di Radio Globo intitolato Il Pulcino Pio. Il Pulcino Pio inizia a propagarsi come un virus in giro per le radio italiane e i canali d’intrattenimento per bambini e diventa quello che si dice un tormentone. Che da bravo tormentone fa capolino in posti dove la più fantasiosa mente umana non sarebbe in grado di posizionarli. Tra le varie ci sono gli Electrical Audio Studios di Chicago, in una sala prove occupata quel giorno dagli Shellac Of North America. Steve Albini ha sentito il Pulcino Pio su YouTube, si è innamorato della canzone e ha provato a contagiare i compagni di band con il pezzo. Todd Trainer e Bob Weston non sembrano impressionati.
(inciso: una volta, durante il momento-domande di un concerto degli Shellac una volta ho chiesto a Bob quale fosse la sua canzone di Lady Gaga preferita. Lui ha risposto che ne conosceva una che si chiamava Poker Face e sperava di non ascoltarne mai più altre, mi sento quindi di dare per scontato che non passi il suo tempo libero a scovare hit radiofoniche)
Una cosa tira l’altra, dice. Nell’atto di spiegare il pezzo ai compagni Albini ha provato a risuonare il tema del Pulcino Pio con la chitarra; quello che gli è venuto fuori non somiglia affatto alla canzone, ma è comunque un buon riff, e la base di una canzone che la band inizierà a costruire da lì in poi. La pubblicheranno tanti anni dopo quel giorno, all’inizio del lato B di un disco intitolato To All Trains. Il titolo della canzone è Scrappers. La storia è raccontata dallo stesso Albini in una puntata del podcast Kreative Kontrol (grazie a Gec che me l’ha passata, sta a 1h22m circa).
Nell’ottobre 2021 Steve Albini è invitato a parlare all’edizione di Print Hustlers che si tiene quell’anno. Print Hustlers, per quanto ci ho capito, è una sorta di conferenza-meeting per stampatori indipendenti, in cui vengono organizzati appunto i talk e i panel e i workshop e altre cose della cui importanza siamo così dubbiosi fuori dalle grandi città da non aver mai sentito il bisogno di tradurre i loro nomi dall’inglese. Un incrocio tra Letterheads e certe fiere di settore: vai lì a salutare gente, stringere rapporti commerciali e imparare il craft. Steve Albini è invitato a raccontare dell’importanza della stampa nella scena musicale indipendente. Trovate il video su YouTube e ne consiglio la visione: lui è in formissima e i dieci minuti iniziali sono roba per cui un buono standup comedian ucciderebbe. Tra le altre cose racconta di alcune esperienze da stampatore che ha avuto negli anni ottanta, tra cui un lavoro in una printing company che produceva t-shirt non ufficiali di grosse band, quelle che a volte compravamo nei banchetti fuori dai concerti grossi o in certi negozi a ridosso del centro. Aveva rimediato il lavoro per imparare la serigrafia e stampare le magliette per la sua band e i suoi amici: la sera prima realizzava la grafica a casa, e il giorno dopo aspettava la fine del turno per realizzare un telaio e tirare qualche maglietta sottobanco (facendo insomma la cresta a un’azienda che già la faceva di suo). Nella sua descrizione la scena di Chicago, e in generale tutto il giro punk di quegli anni, erano popolati di persone che sfruttavano il loro impiego per far risparmiare soldi alla scena ovunque fosse possibile: gente che faceva i turni di notte nelle copisterie per avere la possibilità di stampare i volantini e i poster per le band amiche, nerd che avevano trovato un modo di risparmiare sulle bollette telefoniche usando un fischietto-gadget che veniva regalato in una scatola di cereali.
Il talk di Albini è facilmente assimilabile a tutti le cose che ha detto negli ultimi dieci anni. Tutto quello che raccontava girava intorno ad una diffidenza crescente nei confronti del capitalismo e dell’economia di mercato, sull’idea del mercato musicale come espressione di queste aberrazioni e sulla possibilità di esistere in una sorta di realtà alternativa (anche nel senso di alternative anni novanta) in cui le persone potevano beneficiare dei lati positivi della musica di oggi, magari sfruttandone i lati deboli a proprio vantaggio. Da un certo punto di vista i discorsi sul fischietto e le serigrafie a scrocco sono discorsi dello stesso segno, e hanno un fortissimo grado di parentela con The Problem With Music. Cambiano le piccole cose, le nuance, le contingenze e quel che volete, ma il discorso è questo: il sistema economico fornisce supporto soltanto a se stesso, e gli individui/band combattono in un ambiente ostile.
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‘Scrappers’ è il nome con cui a Chicago vengono chiamati quelli che qui in Romagna forse definiremmo rabazieri. Personaggi che vanno in giro a svuotar cantine, garage e siti in decadenza alla ricerca di roba che si possa rivendere ai mercatini dell’usato, o materie prime da recuperare e rivendere a peso. Rabaziere è un termine-ombrello, molto offensivo, che può indicare tanto uno svuotacantine quanto una persona che, diciamo così, si arrangia -commercianti di roba inesistente, parassiti dello smercio, tirchi patologici. Nel parlare della canzone, o introducendola ai concerti degli Shellac, Albini parlava con amore assoluto degli scrapper. Nel suo ritratto erano come dei trappeur contemporanei che giravano la città con dei pickup rimaneggiati e pieni di roba che sembrano sculture viventi. Nella mia terra la Mutoid Waste Company ha portato al limite le implicazioni artistiche dello scrapping, e ogni tanto vedi passare per la via Emilia un camioncino dal cui cassone spunta una scultura in ferro arrugginito di bellezza stordente. Scrappers, la canzone, racconta la storia di una bambina che vede tornare a casa il papà con un pickup -ha lasciato un lavoro che lo rendeva infelice, lui e lei si metteranno a fare i rabazieri in giro per la città, e vivranno una vita di avventure. We’ll be pirates. È una canzone corta, due minuti e mezzo, compresa un’introduzione e uno svolgimento e un finale bellissimo. È il centro ideologico dell’ultimo disco degli Shellac, uscito una settimana dopo la morte di Steve Albini e diventato per sua sfortuna il capitolo finale di una vicenda artistica che, soprattutto negli ultimi quindici anni, si era ritrovata in mano la bandiera dell’etica applicata all’indie rock e forse in certi casi era stata costretta ad agitarla quando avrebbe voluto limitarsi a suonare.
Tra cose che non vanno nel mondo di privilegi in cui vivo la principale è l’ossessione per il comunicare. È uno dei tanti danni collaterali dell’economia di mercato: la capacità di vendere il prodotto è l’unica merce di scambio che non sembra aver mai perso valore dagli anni sessanta ad oggi, e nel presente quasi tutti i geni sul mercato lavorano nel settore. Il loro genio ha contribuire al formarsi di una realtà improbabile in cui il percepito delle cose esiste in maniera indipendente rispetto alle cose. La comunicazione è vissuta in maniera religiosa, come il collante che mette insieme le comunità. I panel culturali sono vissuti ormai alla stregua di un prodotto finanziario complesso: scambiati in maniera predatoria e difficili da comprendere -ma il capitale cognitivo sembra dover passare di lì, e tanto vale tenere un piede dentro alla porta finché la bolla non scoppia. Nel presente della cultura si può esistere in tre modi: mecenatismo (un cazzaro pieno di soldi ti allunga il cash per fare qualcosa di tuo e il prezzo è che ti usa per farsi bello coi suoi amichetti, una cosa che di solito chiamiamo sponsorship), mercato del pesce (produci roba e convinci la gente a comprartela, una cosa che di solito chiamiamo self-branding), caporalato (produci ‘contenuti’ gratuiti per una piattaforma che non ti paga e incassa su di te e sulla gente che ti legge fino a che le condizioni di permanenza in quella piattaforma non diventano inaccettabili, una cosa che di solito chiamiamo new economy). L’unica arma che abbiamo per combattere il sistema, l’unica cosa che ci tiene al riparo da una finaccia che abbiamo visto fare a troppa gente, è la sfiga. La sfiga è l’unico bene immateriale di cui disponiamo, l’unico asset il cui valore non è quotabile sul mercato -e quindi non può deprezzarsi. La sfiga ci regala la libertà: se nessuno vuole avere a che fare con te, sei libero di fare ciò che vuoi. Se ce l’hai non puoi togliertela di dosso, se non ce l’hai non ne senti la mancanza. Lo scrapper in fondo (ancora più forse nell’accezione romagnola del rabaziere, della persona che muove le briciole, del commerciante di cui non hai bisogno e vicino a cui non puoi stare se vuoi essere preso sul serio dai tuoi simili) non è altro che una persona che vede il mondo con altri occhi. Le condizioni umane e sociali della sua apparente miseria lo rendono inadatto al mondo in cui viviamo, e quindi indesiderabile, e quindi in lotta per la sopravvivenza. Lo scrapper, il rabaziere, lo sfigato, è in grado di individuare pezzi della catena produttiva di cui la catena produttiva non sentirà la mancanza; li toglie dal giro e li usa per il proprio sostentamento.
Ieri leggevo la classifica Pitchfork delle migliori canzoni dell’anno. Al primo posto Not Like Us di Kendrick Lamar, una canzone come minimo problematica, ma che ha quantomeno il pregio di rendere inutili e ridondanti le sovrastrutture che il sistema mediatico le ha costruito addosso -è senz’altro un lato positivo, ma è il trionfo di una visione in cui la musica di un artista non rappresenta in alcun modo le persone che lo ascoltano, e la celebrazione di un non-mercato musicale in cui (a dispetto di un valore nominale in crescita costante) nessuno scambia niente, e i rapporti di forza tra l’artista e il pubblico non sono mai stati così squilibrati. Se devo fare un bilancio dei miei ascolti nel 2024, la prima cosa che mi sento di constatare è che il mio rapporto con la musica è diventato molto più sano. Ricordo articoli che uscivano cinque o dieci anni fa, cercavano di risolvere un dubbio sulla natura del ‘rock’ (è vivo? è morto? è giovanile? è senile? è young adult?) e delle altre musiche, prese in blocco, sulla base della loro capacità di esprimere il contemporaneo, di creare un certo tipo di pubblico e altre cose che hanno tutte a che fare con l’idea di dover comunicare la propria idea nel modo giusto piuttosto che limitarsi semplicemente, che ne so, ad esprimerla. Non mi sto lamentando: alcuni di quegli articoli avrei potuto scriverli io. Ma forse per via dell’età che avanza o per la fase specifica della vita in cui mi trovo, di recente mi trovo spesso a pensare cose sulla mia musica preferita che non ho mai pensato prima di oggi. Mi pare che il rock indipendente, e date alla parola l’accezione che preferite, sia finalmente in grado di esistere in maniere diverse a seconda di chi ne fa uso e senza paura di suonare nostalgico o antistorico. Non significa che tutto l’indierock odierno sia per me, ma anche l’indierock che odio è importante per l’indierock che amo -se non altro tiene un po’ della roba che mi piace ascoltare lontana dalle attenzioni di un pubblico che finirebbe per massacrarla senza pietà. Devo essere onesto con me stesso e ammettere che la morte di Steve Albini per me è stata l’evento musicale più intenso dell’ultimo periodo e, in generale, uno degli eventi più intensi della mia vita. L’ultimo disco degli Shellac è stato considerato un passo falso anche da molti fan e nelle classifiche di fine anno che ho letto finora non ce n’è traccia. Giustamente: non credo di essere d’accordo per la mia quota (se uno vuole la mia opinione sta sul numero di luglio/agosto di Rumore), ma in una visione più generale ha senso che il mondo della musica lasci un disco del genere sul ciglio della strada, come una cosa di cui nessuno ha più bisogno, in attesa che arrivi un rabaziere a tirarlo su, caricarlo nel cassone e usarlo per il proprio sostentamento. Poi bisogna cercare di capire se facciamo parte del mondo della musica o se facciamo parte dei rabazieri, e se facciamo parte dei rabazieri forse abbiamo il nostro inno. We’ll be pirates. E sembra solo giusto che una grossa parte del merito di tutto questo vada al Pulcino Pio.