Bastonate Per Posta Wrapped 2023 #1: quando puoi dire di aver ascoltato un disco?
recap dell'anno passato e propositi per l'anno prossimo (una serie)
“Quando dici che hai ascoltato un disco tante volte intendi da capo a fine? Perché io ho un problema, frustrante, che ormai riesco ad ascoltare i dischi da capo a fine senza interruzioni 2 o 3 quando va bene. Per il resto me li sento a "pezzi". Questo è frustrante perché io quando metto un disco vorrei sentirmelo tutto ma poi la vita me lo impedisce ecco”
Sto facendo una specie di recappino sui dischi del 2023 su Instagram, questa me l’ha scritta un amico commentando un post in cui dicevo di avere ascoltato molto spesso il disco di Bono/Burattini. Che è vero, nel senso, è vero che l’ho ascoltato spesso, anche se non so rispondere alla domanda. Non ricordo quante volte ho ascoltato il disco dalla prima all’ultima nota, quante volte l’ho messo in pausa, quante volte l’ho fermato. Naturalmente il mio amico (ciao Paolo) è in buona fede e parla di un bisogno personale, probabilmente sviluppato negli anni e frustrato dalle contingenze di una vita adulta media. La questione secondo me diventa: dobbiamo assecondare questo bisogno personale o cercare di scavalcarlo?
(l’inevitabile aneddoto che non c’entra con la storia)
Qualche mese dopo l’uscita di Elseq 1-5 degli Autechre, mi ero fissato con l’idea di riuscire ad ascoltarlo tutto in blocco continuativamente dall’inizio alla fine. Quando ho deciso di farlo ero già convinto che fosse un disco da isola deserta, l’avevo messo su decine di volte e coperto tutto, ma in momenti diversi -mezz’ora qui, un disco lì, eccetera. Elseq 1-5 dura, malcontato, quattro ore e qualcosa. Si trattava quindi di trovare quattro ore in cui portare avanti la mia missione. Il problema è che io non ho mai, intendo dire mai, quattro ore libere una dietro l’altra. Ho controllato. Ci sono cose che puoi fare mentre ascolti la musica e altre che devi fare in silenzio. Ad esempio posso disegnare e fare esercizi di calligrafia con la musica nelle orecchie, e anzi aiuta, ma non posso scrivere articoli o racconti o qualunque altra cosa che richieda di articolare il pensiero mentre ascolto la musica.
(una cosa divertente che non so se capita anche ad altri: non riesco ad ascoltare un disco nemmeno quando scrivo la recensione di quel disco. Devo ascoltare, fissare le cose in testa e scrivere in silenzio, altrimenti viene fuori una poltiglia noiosissima)
Quattro ore di fila sono un tempo interminabile, comunque. Anche ad avere serate diverse dalle mie, basta che qualche amico ti mandi il link di un video o qualcosa del genere per rompere il tempo continuato, ed è vero che io ho qualche tratto del sociopatico ma interrompere tutti i miei contatti col mondo perché sto ascoltando un disco mi sembra eccessivo. Comunque insomma, decido di inseguire l’occasione, e l’unica occasione è la sera. Serve una serata in cui sia abbastanza riposato per andare avanti quattro ore ad ascoltare musica, e serve un’agenda sgombra, eccetera. Una sera arriva l’occasione perfetta: la bambina è andata a letto prestissimo, i piatti sono lavati, la mia fidanzata è stravolta a letto e tutto il resto. Prendo un blocco e inizio a disegnare una cosa. Sono le otto e mezzo di sera del primo dicembre 2016. Ricordo la data perché verso le undici su Twitter inizio a leggere che Bello Figo Gu è stato ospite al programma di Belpietro e ha trollato Alessandra Mussolini in diretta, e inizio a scorrere, e a un certo punto salta fuori un video. A quel punto devo decidere se andare avanti ad ascoltare gli Autechre o guardare il video di Bello Figo che trolla Alessandra Mussolini, ma ho già perso un po’ di concentrazione e sono troppo tentato dal video. Metto in pausa e mi guardo Bello Figo. Non avrò mai più un’altra finestra temporale per farlo. Detto questo, dal 2017 ad oggi gli Autechre hanno pubblicato, malcontate, circa 50 ore di musica inedita in forma di radio sessions, dischi di studio, dischi gemelli, esibizioni live e tutto il resto.
Che è il motivo o uno dei motivi per cui agli Autechre vogliamo bene, ma bisogna considerare che la loro esistenza tende a condizionare e modificare un ecosistema della musica. Non sono i soli. Le lungimiranti analisi che uscivano nei primi giorni dello strapotere dello streaming avevano celebrato il funerale del formato “album”, perché una politica di release continua di una-due canzoni per volta avrebbe tenuto più accesa l’attenzione verso un gruppo e generato più indotto. A cinque o sei anni di distanza da quei maestosi esempi di lungimiranza e acume analitico dobbiamo non solo ammettere che il formato “album” è ancora piuttosto vivo ma anche, com’è ovvio che fosse, che il fatto di non dover essere più contenuto per forza in una pizzetta di plastica ha solleticato la creatività di diversi artisti, e così abbiamo gli album di nove ore di Mac DeMarco o dischi di un’ora e tre quarti dei Liturgy e un’infinità di altri esempi.
Certo, il pubblico è cambiato. I Radiohead, ai tempi di Amnesiac, dicevano che i loro dischi duravano quaranta minuti perché quello era la tipica durata di un viaggio in auto, e in questo davano modo di pensare che il tipico fan dei Radiohead ama ascoltare Amnesiac dalla prima all’ultima traccia. Gli Autechre non si aspettano che i loro ascoltatori-tipo si sentano le NTS Sessions in blocco. Probabilmente non se l’aspettano nemmeno le popstar che pubblicano un pezzo ogni due settimane, e nemmeno quelle che buttano fuori un surprise album di un’ora e cinquanta (sto parlando di Donda, ovviamente: perfino Kanye West, con tutte le turbe che sembrano affollare la sua mente, è arrivato a una nuova coscienza).
Cosa significa, quindi, “ascoltare un disco”? Si può dire di aver ascoltato un disco di otto ore dopo averne ascoltato sei ore? Immagino che la risposta più banale sia quella più giusta: ognuno decide per sé, da caso a caso. Ci sono dischi che mi sento di conoscere intimamente all’inizio della traccia due e ce ne sono altri di cui dopo duecento ascolti non ho ancora carpito i segreti. È una cosa che succede in altri campi, com’è ovvio che sia. Esempi: si può dire di aver letto un libro anche se in realtà quello che hai letto è la versione kindle del libro? Puoi dire di avere visto un film anche se quello che hai guardato è uno streaming a 360px sul telefonino? Puoi dire di avere ascoltato un album pur avendo ascoltato la versione a bassa qualità sullo streaming dati mobili di Spotify? Sono tutte domande che, a scomporle e ricomporle, hanno un senso. per quanto mi riguarda, la risposta a tutte è sì. Perché poi il cinema e la letteratura e la musica si aspettano che qualcuno consumi i film e i libri e i dischi in queste modalità. Che tra l’altro sono legali; non che faccia differenza ai fini del discorso, ma significa che chi decide come guardiamo i film non ha niente da obiettare sul modo in cui li guardiamo. Ma il motivo del sì è anche un altro, perché io oggi posso fare lo splendido e pagare lo streaming su Tidal a 16 bit – 44.1 kHz FLAC, qualunque cosa significhi, e sentire le oggettive differenze di profondità nell’ascolto con un paio di auricolari a buona fedeltà, comprati in offerta a un prezzo abbordabile; ma quando mi sono innamorato della musica ascoltavo le cassette in un mangianastri portatile vinto coi punti del detersivo e delle cuffie la cui resa era un decimo di quella degli auricolari a filo che oggi trovate a 2,99 nei megastore cinesi, e mi sono comunque innamorato della musica.
Questa puntata della NL naturalmente non parla veramente di cosa significhi ascoltare un disco. Si tratta in realtà del primo episodio di una serie (probabilmente molto corta) di recap dell’anno passato, e propositi per il prossimo anno, legati alla musica. Ovviamente è un proposito che faccio a me stesso e in questa cosa non voglio coinvolgere nessuno.
Qualche mese fa ho scoperto, per puro caso, che una percentuale del mio umore (non una percentuale immensa, ma nemmeno trascurabile) è determinata da una decisione cosciente. In altre parole, che posso richiedere felicità alla mia psiche, e la mia psiche mi darà un po’ di felicità. Questo processo sembra passare inevitabilmente per un paio di accorgimenti, tra cui impormi di vivere le mie passioni come se fossero effettivamente delle passioni ed evitare come la peste qualunque questione di principio che si frapponga tra me e la mia passione. Tornando al punto di apertura, ha senso ascoltare un disco in sette tranche, e farsi un’idea di un disco dopo un ascolto e mezzo, e cambiare idea su un disco sette volte nel mese dell’uscita, e ha senso ascoltarsi i dischi in bassa qualità e con un impianto indecente, e ha senso decidere di non andare al concerto se il biglietto costa troppo, e ha senso spendere 700 euro per i Metallica se pensi che li valgano, e ha senso comprare un LP ai 40 euro che sono più o meno il prezzo di mercato, se il prezzo di mercato ti va bene.
Quando dico “ha senso” non intendo che contento tu contenti tutti, ma qualcosa di un pochino più complesso. Alla prima lezione di economia di mercato ti spiegano che in realtà non è la domanda a generare l’offerta, e in giro percepisco un bisogno condiviso di buttare croci sui consumatori (o fan, o quelli che pagano, o quel che volete voi) che ad ogni anno che passa trovo più problematico, offensivo e francamente stupido. Che lo si voglia ammettere o meno, la musica popolare è in mezzo una delle fasi più innovative della sua storia; quello che ci dà fastidio, a noi vecchi, è si tratta di un’innovazione di processo più che di prodotto. Nel passato recente abbiamo raggiunto obiettivi legati alla nostra passione che in un passato nemmeno troppo remoto facevamo fatica anche solo a immaginare. Giravo per l’università con un cd portatile che saltava di continuo, una batteria di sette-otto dischi nello zaino e un paio di cuffie rinforzate col nastro per evitare che le giunture dei fili si rovinassero. Oggi faccio la spesa con Paul St.Hilaire (disco dell’anno, se non ne fosse uscito un altro nello stesso anno) nelle orecchie e senza fili, e se mi rompo le palle posso mettere gli Adolescents, o magari il podcast di qualcuno che parla di musica. C’è ancora qualcuno che prova a dire che questa facilità di accesso rende più difficile innamorarsi della musica, e vi assicuro che sono stronzate senza senso. La musica non è un bene di lusso e non è uno status symbol. Il fatto che ce ne sia di più, che sia più accessibile e a un costo minore per tutti, va salutato come un grandissimo sviluppo del sistema. Che questa accessibilità sia stata raggiunta in una situazione problematica è una patologia del sistema che va risolta senza indugi, ma tra risolvere e lamentarsi c’è una differenza. Per “risolvere” un problema si fa in un modo solo: identificare il problema, lavorare sugli accenti e decidere. Nessuna delle opposizioni politiche al caro-biglietti, al problema delle royalty nei servizi di streaming e alla qualità dell’audio si è sufficientemente strutturata da riuscire a generare non dico un’alternativa percorribile, ma nemmeno la possibilità di un’ipotetica alternativa percorribile. Se si vuole lavorare su questo sono disponibile a fare la mia parte, proporre le poche idee che ho, sostenere economicamente le buone idee degli altri per quanto posso, e andare avanti per un futuro migliore. Se ci si vuole continuare a lamentare che escono troppi dischi e i ragazzini ascoltano troppo rap stupido e nessuno compra più i CD e i vinili devono costare 20 euro e Daniel Ek è un manigoldo e chi fa lo Spotify Wrapped è complice di un attentato alla discografia, ci ho giocato in passato e adesso non ho più voglia. Vorrei trovare un modo sensato di chiudere il testo ma vorrei anche chiudere il testo. Alla prossima!