Bastonate Per Posta Wrapped 2023 #2: i dischi
La musica arriva da tutte le parti ed è questo suo continuo arrivare a definirci nel 2023 come ascoltatori. Da un certo punto di vista questo continuo rilevare che non ci sia un artista o gruppo o disco che si impadronisca del mondo e definisca una nuova tendenza musicale rivela un atteggiamento vagamente reazionario, una specie di nostalgia musicale dell’uomo forte che può anche vincere saltuariamente un’elezione o due ma produrrà sempre e solo dei governanti orrendi, ed è anche per questo motivo che le nostre playlist di fine anno sono così apparentemente controintuitive e/o prive di logica. Ogni venerdì escono centinaia di nuovi album, c’è sempre qualcosa di bello o comunque degno di entrare nella nostra orbita, di essere considerato al pari degli altri dischi che abbiamo considerato quest’anno, e questo ha comunque un impatto sul generale, in cui il racconto spontaneo che si crea attorno al disco vale tanto quanto il disco in sé, e la musica del resto non è praticamente mai un assoluto. Sto lentamente e inesorabilmente perdendomi all’interno di questo ideale musicale e la lista dei dischi che preferisco ne risente in qualche modo. È anche per quello che continuare a fare le liste assolve ad un extra-compito, come una carta topografica -non è il territorio ma se devi mettere in macchina è comunque meglio che niente. E se andiamo avanti con la metafora della mappa è ragionevole aspettarsi che il paesaggio musicale tenda ad arricchirsi molto col passare degli anni ma anche a uniformarsi un po’, da cui il fatto che gli stessi 200 dischi siano più o meno la spina dorsale di tutte le classifiche che avete letto e forse lo saranno anche della mia (scusate).
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Il mio disco del 2023 è The Record delle boygenius. Credo lo sia più per una questione personale che per un fatto oggettivo di valore, e suppongo che questo non la renda una grande scelta dal punto di vista critico -ma da un lato me ne sbatto e dall’altro credo che l’aspetto estetico della musica vada ridimensionato in favore di una visione più generale della musica nel mondo, e in fondo il senso delle boygenius è questo -tre ragazze, un centinaio di immaginari rock’n’roll, poche pretese nominali e non avere paura di buttare il cuore oltre l’ostacolo. Il principale effetto positivo della musica è di generare entusiasmo attorno ad essa, di qualunque segno sia questo entusiasmo (nel senso che la voglia di uccidersi non è necessariamente esclusa): se si è partecipi a questo entusiasmo lo si è a prescindere dagli appigli estetici che la musica decide di darti, e se ce ne sono pochi non vuol dire che sia merito del marketing.
(Se volete comunque una ragione estetica forte, The Record è il disco che più nel presente riflette sull’idea di gruppo, di essere gruppo, in una realtà musicale nella quale si può tranquillamente non essere gruppo e fare musica che sia l’esatto corrispettivo della nostra volontà musicale. In questo suo essere così clamorosamente superiore alla somma delle parti che lo compongono, peraltro, è un disco che si regge su un ideale socialista -will you be a socialist with me?- che sembra destinato a mangiarsi la macchina promozionale che l’industria ha messo intorno alla band (e quindi il suo suonare così medio, così fm rock, assume un senso molto preciso e molto importante) e nel quale il sacrificio organico del bisogno di apparire/primeggiare del singolo viene fatto in funzione di una maggiore capacità di perseguire obiettivi comuni)
(l’avete chiesto voi)
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Tolte le boygenius dal mazzo, il disco che ho ascoltato di più si chiama Tikiman Vol.I, ed è il ritorno solista dopo quasi vent’anni di Paul St.Hilaire, ed è la cosa più deep che ci sia dato di ascoltare oggi -il fatto che mi piaccia così tanto significa che forse ho ancora voglia di abitare case infestate dagli spettri e che la musica deve tendere ancora in una certa misura al silenzio. Lo stesso motivo per cui sono innamorato dell’ultimo album di Modern Nature, che a un certo punto mi ha completamente assorbito facendomi perdere, credo, due settimane di ascolti dietro al solo bisogno di riascoltarlo di continuo. E naturalmente poi c’è questa cosa che la tendenza al silenzio chiama sempre una forza uguale e contraria e credo che sia stato un grandissimo anno per il rock pesantissio. Soprattutto per l’idea su cui si è costituito molto del miglior rock pesante di quest’anno, ovvero di tornare al piccolo e al personale, di smettere di essere post-tutto e di ricominciare a essere bravi a fare una o due cose, come decidono di fare i dischi di Big|Brave e Sprain, che per molti versi sono lo stesso disco suonato da due gruppi diversi, ma anche ovviamente Godflesh, Khanate, Liturgy e soprattutto Algiers (gli ultimi due sarebbero incazzatissimi se sapessero di essere finiti in una lista di rock pesante ma noi non stiamo qua a fare le mossette) e perché no The Shits che avevo completamente rimosso e ieri il mio amico Valerio ha riportato in auge. Un’annata commovente per il ritorno dell’emo, che il prossimo anno sarà addirittura a Sanremo con La Sad ma di cui noi ci godiamo ancora nella declinazione urli-cuore sbrandellato-occhiali da vista, e quindi awakebutstillinbed (un disco di bellezza assoluta) e ovviamente Washer. Tolto di mezzo il punks e il metal per me rimane un anno segnato da gente tipo Fever Ray e quindi in tutta questa idea di amore e trasformazione che sta alla base di tantissima musica odierna, un’idea in cui quest’anno anche Janelle Monáe trionfa imperiosa. 100 Gecs hanno tirato giù un canto del cigno favoloso per tutto il merdaio hyperpop che per qualche motivo la critica continua a ciucciare a piena bocca e che nel 2023 sembra il genere più radicalmente in crisi di idee. A parte forse l’hip hop, che non a caso sta imboccando una strada molto simile: i dischi più amati in giro (mi vengono in mente Billy Woods, JPEGmafia, Earl, forse pure Noname) sono quasi tutti titoli che spingono tantissimo sul pedale della pantomima e non sembrano più essere controbilanciati da una forza uguale e contraria di scrausi incazzati che in qualche modo danno senso alla loro esistenza, e in Italia peggio ancora. È un sospetto, non è una tesi. È ancora un grande anno per il pop, soprattutto per il pop femminile: Lana Del Rey si qualifica in playlist con riserva, Victoria Monét, sospetto anche Nicki Minaj (disco recentissimo ma). Il poppettino di chitarra e amplificatore tipo Youth Lagoon o soprattutto Cut Worms (ma anche Angie McMahon) suona per qualche motivo più opportuno del solito.
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C’è una categoria di dischi che in qualche modo hanno a che fare con tutto un concetto di fine, di canto del cigno, di tornare una sola volta, magari fuori contesto, a fissare in via definitiva i motivi della propria importanza storico-culturale. Sono dischi realizzati da gruppi famosi o famosissimi e che in altre epoche storiche sono stati celebrati in qualche modo come punte culturali del loro tempo, come massima espressione del qui ed ora. E che oggi tornano a cantare la fine del loro ruolo nel mondo della cultura, se non come spettri o parassiti, ma in un modo che in molti casi è stato poetico e commovente. Sono opere che stanno avendo una curiosa risonanza anche al di fuori dei circoli dei nostalgici, come ad esempio sembra testimoniare il fatto che l’ultimo disco degli Yo La Tengo sia il disco dell’anno su The Wire. E l’ultimo disco degli Yo La Tengo è veramente un grande disco, a dispetto della mia stessa diffidenza nei confronti dell’ultimo ventennio del gruppo. Ma non è il solo. Ci sono ovviamente i Blur dell’ultimo disco, ci sono gli Everything But The Girl di Fuse (sottovalutatissimo) e i Chemical Brothers dell’ultimo disco. C’è ovviamente il disco postumo di Sakamoto e Jaimie Branch, e molti altri titoli in giro. Ma più di tutti ci sono i Depeche Mode di Memento Mori, che è veramente uno dei capolavori del 2023 e forse in generale uno dei dischi che hanno saputo celebrare meglio l’idea di fine applicata ad un grande gruppo di musica popolare.
Il mio disco italiano del cuore si chiama Selva e l’ha inciso Marta Del Grandi. Pochissimo sotto il disco di The Thugs e quello di Daniela Pes, Godblesscomputers e soprattutto Koralle, Massimo Silverio, Leatherette e San Leo, Not Waving, Bono/Burattini e in realtà tante altre cose che non ho voglia di star qui a sviscerare, ho nominato una cinquantina di artisti e non sono nemmeno all’inizio delle mie preferenze. Chi non è stato citato non si offenda: può darsi che abbia comunque goduto un sacco col vostro disco.