I’m not going to work today
Gonna count the minutes that the trains run late
Sit on the grass building pyramids out of coke cans(Courtney Barnett, Elevator Operator)
(nota: il pezzo è una versione, molto riveduta ed allargata, di un articolo uscito sull’ultimo numero del settimanale Ravenna&Dintorni, per il quale curo una rubrica di musica)
La parola scazzato può apparire in qualche modo desueta nel vocabolario di questa epoca storica, che ha trovato termini migliori da usare per descrivere i sentimenti, soprattutto altri sentimenti che valesse più la pena provare. Vi è capitato di sentire qualcuno di recente usare la parola scazzato? Magari sì. A me suona male. Se usassi la parola “scazzato” in una conversazione mi sentirei un 40enne che cerca di parlare il linguaggio dei 15enni di oggi, e farei fatica a spiegare a me stesso che in realtà si tratta di un sentimento molto specifico e molto plausibile, magari un po’ legato alla sindrome di Peter Pan della nostra generazione, ma non necessariamente. Insomma, credo sia normale di tanto in tanto sentirsi a 40 anni come ci si sentiva a 15. Scazzato descrive quel che provi quando ti devi alzare la mattina per andare a lavorare, perché la mattina tocca alzarsi e andare a lavorare e non sono ancora arrivati quelli col master e l’affitto a Milano pagati da mamma, a dirti che in realtà la prima cosa per vivere bene è inseguire i propri sogni e licenziarsi e arrotondare facendo il rider. Scazzato è il precipitato di un’epoca in cui non amare il proprio lavoro era ancora accettato socialmente. Scazzato è l’esito più diretto, e il cane da guardia, di un patto sociale per cui il mio prossimo deve cercare di fare tutto ciò che è in suo potere per vivere la propria vita senza impattare troppo sulla mia, costringendomi a perdere tempo che potrei passare sdraiato sul divano a far nulla perché oggi pomeriggio sono scazzato. Scazzato è una vocazione, ma anche il frutto di un brutale calcolo economico. Essere scazzati ha innumerevoli vantaggi nel breve periodo (riassumendo, nessuno ti rompe più i coglioni), ma anche innumerevoli costi nel lungo (riassumendo, nessuno ti invita più a cena). Le regole della società sono cambiate da qualche parte al cambio di millennio. Dopo una fase interlocutoria di accettazione oggi nessuno sceglie più lo scazzato come stile di vita perché i suddetti foodblogger sono riusciti a convincerci che i vantaggi non valgano il costo. Se volete posso chiamarla economia del sé ma se prendo quella china poi la newsletter a pagamento è un attimo.
È perfino difficile, nel 2022, riportare alla mente un’epoca che vi assicuro essere esistita e in cui essere scazzati andava talmente di moda che un sacco di entusiasti della vita si sentivano informalmente costretti a comprare un cappottino d’ombra e malessere, da poter indossare almeno da ottobre a marzo. Era l’onda lunga di uno spleen che serpeggiava negli anni ottanta e a un certo punto aveva provato a strutturarsi, mollare le droghe pesanti e trovare un modo di esistere quotidiano. Lo scazzo sta alla disperazione come il metadone all’eroina. Per la sua natura impolitica il rock’n’roll aveva abbracciato lo scazzo e aveva finito per politicizzarlo. L’asse Husker Du/Dinosaur Jr/My Bloody Valentine aveva fornito le fortissime premesse musicali dello scazzo e Kurt Cobain era riuscito in qualche modo ad insegnarlo a tutto il mondo: non solo si può essere scazzati e suonare violentissimi, ma in certi momenti non sembrano esserci alternative. Per gli anni che vanno da Nervermind all’ignobile disastro culturale che fu Dookie dei Green Day (il disco-simbolo del rock clintoniano, il manifesto di un’era in cui l’America tornava improvvisamente a vivere e cantare in pubblico, sborrare sui propri conoscenti e trangugiare bevande gassate) quasi tutti i gruppi rock hanno suonato scazzatissimi. In effetti nei primissimi ’90 scazzato era diventato un vero e proprio tempo della musica, come allegro o andante (Screamadelica: scazzato allegro. In Utero: scazzato andante), con ramificazioni in tutti i sottogeneri rock compreso il metal (Korn, Pantera, Type O Negative, per citare i primi grandi nomi dello scazzato metal) e occasionali puntate nel mainstream pop (ho il vago ricordo un’esibizione degli East 17 in televisione, poteva essere un Festivalbar, in cui uno o due elementi della band completamente immobili davanti al microfono a cantare in playback col viso coperto dal cappuccio della felpa).
Sapevamo, in cuor nostro, che non sarebbe durata per sempre. Abbiamo perfino accettato di buon grado lo shift ideologico che ci obbligava a vedere la luce in fondo al tunnel, o comunque ad accettare che in astratto una luce in fondo al tunnel potesse esistere anche se non volevamo prenderci la sbatta di andare a controllare. Così la bolla dello scazzo è esplosa e lo scazzo è diventato appannaggio di una minoranza, composta da persone non propriamente disposte a combattere per imporsi, e che hanno continuato ad agire sottotraccia per pura mancanza di alternative. Animati dalla sincerità del loro cuore e dalla certezza incrollabile che suonare scazzato sia molto meno faticoso di suonare bene. I meno scazzati tra loro hanno provato a risuscitare alcune forme di scazzo all’interno di una definizione-ombrello (il fortunatamente dimenticato slacker) che risuonasse in atteggiamenti e non buttasse le premesse ideologiche, mettesse assieme scazzati ed entusiasti e potesse risuonare in qualche pantomima di estasi pubblica. Ma il popolo degli scazzati non era pronto a trovarsi nella stessa squadra di gente tipo Beck o gli Weezer, e si è opposto (non) strenuamente ai rituali collettivi previsti dal codice, dando vita a sacche di resistenza su cui hanno prosperato alcuni compromessi culturali che ancora oggi, non so per quale motivo, continuano a produrre grande musica: slowcore, downtempo, IDM. Ma più in generale lo scazzo ha fatto quel che doveva per sopravvivere e gli scazzati hanno accettato (vorrei dire con entusiasmo ma eravamo tutti scazzatissimi) di non essere più hip.
Da allora lo scazzato è diventato una rara avis della musica rock, destinata quasi sempre a suonare anacronistica e fuori contesto e forse pure un po’ pretenziosa. E perfino snob, in un mondo come quello odierno in cui la mancanza di entusiasmo è una colpa pari solo alla mancanza di soldi e va sempre giustificata a prescindere. Ci sono stati momenti in cui gli scazzati hanno rialzato la testa, in ogni caso. Molto semplicemente: lo scazzo produce quasi naturalmente grande musica. O musica orrenda, ok. Però anche grande musica. E quindi ad esempio quando a metà degli anni dieci uscì il primo disco lungo della scazzatissima Courtney Barnett, perfino un entusiasta come Barack Obama aveva messo Elevator Operator nella sua playlist annuale (Elevator Operator racconta la storia di un tizio che a un certo punto si scazza). Anche in quel caso non è finita bene: Courtney vive e lotta insieme a noi, ma solo nelle pause tra una sigaretta e l’altra. Ma gli scazzati sono ancora sulla mappa (in particolar modo lo scazzo sembra aver conquistato le musiciste). Tutto questo cappello per dire che, un po’ alla chetichella, la scorsa settimana è uscito il probabile disco-manifesto scazzato degli anni venti. Lo ha realizzato Try The Pie, one man band allargata e facente capo a Bean Toupou (musicista di origini tongane con base a San Jose). Il disco si chiama A Widening Burst Of Forever ed esce a sette anni di distanza dal precedente lavoro di Try The Pie, probabilmente perché Toupou era impegnata a stare sdraiata sul divano a leggere fumetti e scaccolarsi. Non ho davvero voglia di scrivere la recensione del disco. Lo amerete se amate i Dinosaur Jr, se amate le Breeders, se vi piace parlare in corsivïœ e dire “cioè” o “tipo” ottanta volte all’ora, se vi piacciono le chitarre imprecise ai limiti dell’insulto e fragorose ai limiti della sordità e se vi rompe il cazzo svegliarvi la mattina per andare al lavoro, cioè, tipo