“no, sì, quello che ho comprato l’anno scorso funziona ancora bene ma questo ha la bazza che lo puoi collegare ad Alexa o tipo se ti vuoi ascoltare il vinile con le cuffie senza filo”
(sentita sotto natale a un tavolo vicino, scartavano un giradischi)
-nota introduttiva: quella che segue è la versione riscritta/espansa della rubrica uscita sul Rumore di dicembre-
È il 4 novembre del 2021 quando esce su Consequence Of Sound un articolo di Glenn Rowley intitolato Adele Causes Global Vinyl Shortage With New Album 30, in cui viene dato conto di un gigantesco problema a cui il mondo della discografia sta cercando di far fronte, nella maniera in cui la discografia è solita far fronte ai problemi (ignorarli finché è possibile e poi accettare il fatto compiuto). In sostanza il vinile nuovo disco di Adele (release date 19 novembre 2021) è stato mandato in stampa nel numero di 500mila copie circa, una tiratura del tutto inusuale per un disco di questo decennio, e questa richiesta
(unita ad una drammatica crisi di materie prime che sta investendo ogni settore produttivo in occidente, e a un altro paio di contingenze che magari in seguito andrò a menzionare)
è diventata uno scoglio produttivo che il mercato del vinile globale non è ancora riuscito ad aggirare, figurarsi abbattere. Questo ha fatto sì che i tempi di consegna per la stampa di un nuovo album coprano un arco di tempo paragonabile a quello del Nuovo Testamento. O come dice Laura Jane Grace, citata nell’articolo di Consequence Of Sound, “If you’re in a band and you DON’T finish recording an album in the next 3 months the vinyl won’t come out until 2023. No pressure though.” Immaginatevi un anno di attesa per stampare un LP in un mercato nel quale le logiche di promozione, marketing e cultura generale legate allo streaming rendono la vita impossibile a qualunque disco non performi nelle prime due settimane[1]. Se avete un gruppo o un’etichetta, non dovete nemmeno fare lo sforzo di immaginarvelo. Ho preso l’articolo di CoS come puro esempio, ma la realtà è che il secondo semestre del 2021 è costellato di pezzi uguali a questo: crisi del vinile qui, stagnazione lì. Non più di un anno fa uscivano ancora approfondimenti entusiasti su di un supporto discografico che era risorto dalle sue ceneri e che perfino Forbes menzionava a mo’ di case study danzando un pochino con le cifre per venderla come la storia di un successo. O più esattamente per non dare troppo a vedere che questo “successo” fosse poco più di una bolla, per giunta così poco credibile che la sua esplosione si è consumata nel corso di più di un decennio. E siamo passati dall’entusiasmo del passato prossimo ad un presente in cui il vicolo cieco del vinile è già una notizia che non fa più scalpore: abbiamo ancora qualche remora a parlarne fuori dai denti ma lo sappiamo tutti, e le candide dichiarazioni degli addetti ai lavori più che un grido di denuncia sembrano le lamentele di una massaia all’inizio di un film di Mad Max.
A dire il vero ho qualche dubbio sul fatto che sia bastata una produzione di 500mila copie per far scoppiare la bolla del vinile, nel senso che la tiratura di Adele è senza dubbio inusuale ma parliamo comunque di un 1% scarso dei vinili che vengono venduti in un anno solare (e dipende ovviamente anche da che anno solare consideriamo, in un mercato che nei numeri puri vede aumenti in doppia cifra da più di un decennio). Ma mi piace la poesia di fondo di questa storia, e cioè che sia il disco di Adele. Pensateci: a chi è destinato il vinile di Adele? Quanti acquirenti compulsivi di vinile sono disposti a metter giù 35 euro per possedere in formato fisico il disco di una regina del pop i cui ultimi blandi sussulti di creatività e/o impatto culturabile sono datati 2011? Stima ottimista: diecimila persone in giro per il mondo[2]. Chi sono gli altri 490mila? Per la maggior parte, gente che deve fare regali agli acquirenti compulsivi di cui sopra. Tu non compreresti il nuovo vinile di Adele nemmeno sotto tortura, ma tua zia potrebbe pensare che sia il regalo perfetto per te. Souvenir dell’apocalisse: più fortunati potrebbero addirittura ricevere due copie del motivo per cui l’ultimo disco dei Sault continua a non arrivare.
Quel che trovo più fastidioso è che siamo stati noi stessi a scavarci la fossa. Intendo, noi appassionati. In un sistema musicale come quello degli anni duemila, che tollerava il vinile come trascurabile nicchia di mercato che dopo il crollo del CD aveva trovato il modo di sostentarsi senza rompere le palle né chiedere aiuti a nessuno, abbiamo iniziato a decantare l’assoluta perfezione del supporto, e l’abbiamo spinto a forza sul palco principale, quello in cui oltre a quelli che si sostenevano senza rompere le palle c’erano anche i dischi ultra-mainstream da regalare a tua nipote e delle infinite reissue dello stesso disco degli Stones e di tutto il carnaio di cose che nel giro di dieci anni sono riuscite non solo a creare ex novo un calendario ultra-eccitante delle nuove uscite, ma anche e soprattutto a renderlo totalmente impensabile in tempi di produzione che abbiano qualcosa di ragionevole. Il tutto in un sistema produttivo così solido e lungimirante da essere (o no) entrato ufficialmente in crisi al paventarsi sul mercato del primo titolo da 500mila copie, una tiratura che per un disco pop degli anni ottanta sarebbe stata deludente. È in fondo la teoria di uno degli articoli più belli che ho letto sul tema, uscito sul Rumore di giugno scorso, firmato ovviamente da Maurizio Blatto e intitolato In difesa del CD. Nel quale viene esposta nero su bianco una teoria che rileviamo sottotraccia da diverso tempo: il ritorno del compact-disc. La teoria Blatto è legata non tanto a fantomatici pregi del CD quanto a concreti difetti del vinile in questi anni: l’inesperienza dei neofiti, la saturazione del mercato, le decine di gabole messe insieme dall’industria per incular soldi ai fan, l’aumento dei prezzi e ovviamente l’irreperibilità di tantissimi titoli *teoricamente* in piena stagione (l’anno scorso citava Dry Cleaning ed Arab Strap, due titoli in cima a tantissime classifiche di fine anno), oltre naturalmente alla generale insanità del settore ristampe[3]. Il confronto con la fredda onestà del mercato dei compact-disc, il cui commercio rimane ormai appannaggio di acquirenti generici e collezionisti compulsivi costantemente a caccia di nuova roba nice price con cui farsi, è impietoso. Ci sono altri aspetti della questione che concorrono ad aggiungere fascino al compact-disc; uno dei fondamentali è che negli anni più recenti è fondamentalmente scomparso dai posti dove uno si aspettava di trovarlo, siano essi le tasche laterali delle portiere delle auto o il banchetto del soggiorno vicino al telefono fisso, tanto da rendere molto più che un’ipotesi l’acquisizione da parte del CD dello status di formato analogico[4], e questo l’ha reso appetibile al mercato delle chincaglierie. Ma non è una questione di purezza o di etica individuale, due cose con cui ci puliamo il culo da tempo immemore: la ragione fondamentale è che non c’è alternativa. Se vuoi il disco fisico degli Arab Strap devi comprare il CD, e una volta che l’hai comprato puoi scoprire che -in fin dei conti- comprare un compact disc non è poi tutta questa sconfitta morale. Io la risolverei così: confezione del vinile con dentro il CD. Una roba da sfigati, ok, ma se c’è UN problema della musicofilia negli anni venti è di aver rinnegato la sfiga come ragione di vita. Ma volete sapere un dato davvero interessante? Nel 2021 in America si sono venduti più CD che nel 2020. È la prima volta che succede da 17 anni, cioè da un’epoca storica nella quale indossavate pantaloni a vita bassa, rispondevate da un account di posta @libero.it e scaricavate gli Interpol da Audiogalaxy. Le ragioni di questo aumento possono avere a che fare con tutto questo nuovo hype trasversale? Forse sì, forse no. Leggevo proprio oggi un’analisi approfondita delle ragioni fondamentali che hanno portato a questo risultato, scritta da Rachel Brodsky su Stereogum. Per prima cosa, è uscito il disco di Adele. Il quasi-milione di copie vendute ha inciso in maniera fondamentale sul numero di CD venduti. Secondo,
no, niente, in realtà non c’è nient’altro. se il disco di Adele non fosse uscito, si sarebbero venduti meno CD che nel 2020.
[1] Qui probabilmente qualcuno ha pensato “beh ma non importa perché comunque per i vinili c’è la prevendita e poi il tempo di consegna son cazzi di chi l’ha comprato”, ma diciamo che questo modo di pensare nella mia idea ingrandisce il problema invece di semplificarlo; intendo dire che gli imprenditori che pensano “sono cazzi di quelli che comprano” in genere hanno coscienza del fatto che la loro attività chiuderà i battenti entro due anni.
[2] Potrebbe essere una proiezione sbagliata perché nell’ultimo decennio abbiamo beccato più volte Adele seduta all’incrocio tra la musica e la non-musica, tra quello che tutte le persone con un blando interesse per i dischi considera almeno un pochino rilevante e quello che le stesse persone vedono accadere e non ne sono troppo turbati perché ormai sanno di non poterlo impedire.
[3] Per dire, una volta Blatto stesso mi ha girato una foto del vinile di T’appartengo di Ambra, sapendo peraltro che l’avrei comprato seduta stante.
[4] Non vorrei sbagliare, ma analogico è termine che vorrebbe definire un processo determinato per analogia, cioè più o meno che il risultato risponde esattamente a un segnale che viene dato; mentre il formato digitale ha bisogno di una decodifica per trasformare un segnale numerico in un risultato non-numerico (che ne so, musica). Ma questa differenza non ha nessun senso narrativo, vale a dire che in condizioni di normale funzionamento degli apparecchi nessuno ha un problema percettivo legato al fatto che una cosa sia digitale o analogica, e quindi la vera differenza tra analogico e digitale nel vernacolo comune è che il digitale è la roba di adesso e l’analogico è la roba di una volta. Il CD, nel 2022, è assolutamente “roba di una volta”.