100 canzoni italiane: DILLO ALLA LUNA
è più facile immaginare la fine del capitalismo che la fine di Vasco Rossi
Ho un problema con i fan di Vasco Rossi ed è che quando ne conosco/riconosco uno la mia testa comincia ad attivarsi in un modo che non riesco a controllare e copre di Vasco Rossi ogni aspetto della personalità di quel fan, come se nella vita di lui/lei non ci fosse posto per nient’altro che Vasco Rossi, come se tutti vivessero il loro presente di fan di Vasco come nel passato io vivevo il mio fanatismo per, che ne so, i Guns’n’Roses. È un processo mentale su cui non ho alcun controllo e che si estende oltre ogni logica di cui io sia capace. Voglio dire, lo so che la persona che ho davanti ha una vita normalissima e probabilmente incasinata quanto e più della mia, un lavoro e un matrimonio e un genitore dalla salute malferma e una carriera da pallavolista in gioventù, o quel che è. Non riesco. Dopo dieci minuti che ci sto parlando li ho trasformati tutti in tossicodipendenti da Vasco Rossi che aspettano il prossimo concerto come un eroinomane aspetta la prossima pera, come persone per cui il cibo non ha alcun sapore e l’alcol non ha alcun effetto. L’ultima volta mi è successa qualche sera fa, ero a una tavolata vicino a una donna e parlavamo delle cose di cui parli sempre con una coetanea quando hai la mia età -i figli, il lavoro, i primi acciacchi, e a un certo punto per qualche motivo salta fuori Vasco Rossi, e da lì in poi inizio a sragionare. Era al concerto qualche sera prima, bellissimo come sempre ma un po’ una sfacchinata, e i suoi lineamenti sembravano improvvisamente alterarsi come se fossi in quel film e qualcuno mi avesse obbligato a indossare un paio di Rayban. Solo in quel momento ho notato il tatuaggio sulla spalla sinistra, il testo di una canzone in un corsivo un po’ incerto.“Perché la vita è un brivido che vola via/È tutto un equilibrio sopra la follia”. Tra l’altro cosa cazzo significa? Vabbè. È molto meglio suonare poetici che essere poetici, quantomeno a cena.
(una piccola nota sui tatuaggi: da neofita della calligrafia ho nei confronti della calligrafia un atteggiamento molto fastidioso, anzi proprio insopportabile, che mi costringe a guardare e soppesare ogni cosa che le persone intorno a me hanno avuto l’ardire di tatuare sul loro corpo. E triste a dirsi, la maggior parte delle volte sono cose scritte malissimo. “Davvero hai pagato un essere umano per incidere su di te una cosa scritta così a cazzo di cane?”. Non lo dico ad alta voce, naturalmente, e non voglio mancare di rispetto a nessuno. È solo una cosa che mi viene automatico pensare. Dico solo: se avete intenzione di tatuarvi una parola addosso, e mettete a budget 100 euro per farlo, credo sia una buona idea spenderne altri 50 per farla scrivere da un calligrafo esperto. Intorno all’arte della scrittura ci sono pochissimi soldi, e questo rende possibile avere sul tuo corpo una frase in corsivo inglese scritta appositamente per te da una persona espertissima, che ha studiato per 25 anni il craft ed è riconosciuta tra le massime autorità di corsivo inglese sul pianeta. Il tutto per una cifra assolutamente ragionevole)
Questa idea da regime totalitario dei fan di Vasco Rossi non ha nessuna ragione di esistere nel presente, come credo si possa del resto dire di qualunque popstar generazionale appartenente a generazioni che non hanno più bisogno di essere definite da una popstar. Non è una cosa completamente priva di fondamento, o quantomeno nella mia infanzia/primissima adolescenza ho avuto a che fare con qualcuno che ha vissuto Vasco come un culto religioso (il mio amico Omar diceva di aver visto a un suo concerto lo striscione ZOCCA COME BETLEMME). Oggi non è più così. Lasciando stare un piccolissimo gruppo di irriducibili, per la maggior parte degli altri Vasco Rossi è tuttalpiù una figura tra le tante che compongono il pantheon della loro esistenza, non troppo diverso da quel che sono stati Totti, Berlinguer o i cocktail di quattro estati fa -fantasmi di epifanie passate che continuano a saltar fuori nel presente di chi si prende il disturbo di non dimenticare quel che è stato. Così osservo le foto degli amici d’infanzia che si selfano a Imola prima del concerto e penso, santiddio, avrei potuto essere lì con loro. A diciott’anni il pensiero mi avrebbe fatto rabbrividire. A 44 ammetto di essere molto ben preso all’idea che possa succedere. È una specie di fantasia della tarda età, solleticata dalla convinzione di aver guadagnato un briciolo di personalità che magari ai tempi non avevo. Tantissima gente che conosco racconta di provare ribrezzo all’idea di incontrarsi a cena coi compagni di liceo o gli amici del bar, io sono molto felice le poche volte che succede -c’è sempre qualche storia pazzesca da ascoltare, qualche persona che odiavi a pelle e ti stupisce, qualcuno da perdonare, qualcuno da cui essere perdonati o qualcosa del genere.
_
La musica è una parte abbastanza importante di questo processo di crescita. Se c’è qualcosa di buono che ha fatto la musica è stata mettermi assieme a persone con cui dovevo finire assieme, farmi scoprire qualcuno dei miei simili. È un’arte che s’impara col tempo, può avere a che fare con certe epifanie specifiche -ci sarà pure qualcuno che s’è conosciuto durante la tromba d’aria al concerto dei Pearl Jam e ora ha un mutuo condiviso- ma anche più in generale con un certo modo di guardare al mondo. All’inizio magari ti piace il death metal e pensi che quelli che ascoltano death metal siano tutti potenziali compagni di vita, poi impari che non funziona così. Vale anche a rovescio, ovviamente: un certo atteggiamento verso la musica suggerisce un carattere non-affine. Ho odiato tantissimo la figura e la musica di Vasco Rossi, ora non odio più nessuna delle due.
Per un certo periodo di tempo, come tutti, ho pensato che Vasco Rossi stesse per smettere di essere parte del presente. Immagino ricordiate anche voi un periodo, verso la fine degli anni zero, in cui sembrava di dominio pubblico la notizia della sua imminente dipartita. Era una sorta di leggenda metropolitana il cui dilagare non era minimamente ostacolato dalla totale assenza di notizie ufficiali in merito al suo stato di salute. Giravano voci insistenti su cartelle cliniche da far accapponare la pelle, avvistamenti del cantante in cliniche specializzate nel trattare i malati terminali, commenti estesi su alcuni sospetti cali di voce a qualche concerto. Per un certo periodo molta gente ha comprato i biglietti del tour estivo con la ferrea convinzione che sarebbe stato l’ultima occasione di vederlo calcare un palco.
Come da sua navigata abitudine, Vasco Rossi l’ha messo brutalmente in culo alla vox populi. Ha affinato questo talento negli anni ottanta, un decennio nel quale la sua figura pubblica oscillava di continuo tra miserie umane e stadi sempre più gremiti, e le teste pensanti dello showbiz non riuscivano a decidere se avviare la procedura per la beatificazione o chiamare il GIP. Questo talento, messo da parte e sfruttato periodicamente per smarcarsi dalle ombre del mondano, gli ha permesso di sopravvivere in serenità, suonare dal vivo in contesti monumentali (Modena Park), diventare occasionalmente il meme di se stesso (Eh già) ma senza abbracciarla come unica possibilità di carriera. L’ombra della sua poetica si è allungata su politici di destra e di sinistra senza che nessuno sia riuscito ad intestarselo (Pierluigi Bersani rimane quello che c’è andato più vicino e si è bruciato in un momento, moderno Icaro della pop culture). La sua brillante accettazione del ruolo a cui bene o male è stato costretto lo rende quest’oggi uno dei più sfuggenti intellettualo italiani, e uno dei pochissimi nomi addosso a cui lo spirito del tempo sembra costantemente accartocciarsi. Nessuno degli artisti del suo circolo ha avuto uno straccio di successo fuori dal suo circolo. Artisti internazionali di primaria rilevanza sono stati cacciati dal palco a bottigliate perché erano in scaletta appena prima di lui ad un festival, anche in anni piuttosto recenti. Vasco Rossi continua ad essere un credibilissimo punto di convergenza tra un desiderio molto blando di musica orecchiabile da sgranocchiare mentre fai altro e il bisogno di affidare il racconto della propria vita ad un musicista percepito come vero. Questa convergenza tende a travolgere ogni altra manifestazione umana e musicale si trovi nel suo cammino. È una convergenza che si auto-isola e da cui si salvano in pochissimi, da cui ad esempio la diffidenza sostanziale nei rapporti tra Vasco e gli altri vertici del pop italiano. Come scrisse una volta Ikke sul blog, la forte riconoscibilità del suo pubblico ha reso difficile per lui incassar favori in certi salotti. Certo, scrive qualche hit per altri, ma Patty Pravo o Noemi con un pezzo di Vasco non sono come Elisa con un pezzo di Ligabue o Giorgia con un pezzo di Jovanotti. Se capite quel che voglio dire.
_
L’ultimo disco registrato da Mia Martini esce nel 1994 e si chiama La musica che mi gira intorno. Si tratta di una raccolta di cover. Si tratta di uno dei classici dischi della fase tardiva di Mia Martini, che in quel momento ha 47 anni: interpretazioni grandiose, accompagnamento strumentale ai limiti della denuncia. Il disco dovrebbe inaugurare una fase nella quale Mia Martini, dopo un decennio di inaccettabile ostracismo e un’inaspettata resurrezione sanremese, s’avvia a diventare una novella Mina: una serie di dischi in cui reinterpreta vari artisti che le stanno a cuore, incluso un duetto con la stessa Mina e un fantomatico cover album di Tom Waits. Non avremo modo di assistere a questa mutazione: Mia Martini morirà nel maggio del ’95, nella casa in provincia di Varese dove si era da poco trasferita. La musica che mi gira intorno contiene momenti di musica assoluta. Il più alto è una reinterpretazione di Dillo alla luna di Vasco Rossi, che è impossibile -a posteriori- non pensare scritto apposta per lei. Se non l’avete mai sentita, credo ci sia bisogno di un briciolo di preparazione: la prima volta che si ascolta Mia Martini urlare maledetta sfortuna la si ricorda per tutta la vita. O comunque io la ricorderò per tutta la vita.
Dillo alla luna è un brano pubblicato nel 1989, lo stesso anno in cui Mia Martini torna a Sanremo con Almeno tu nell’universo. Per Vasco Rossi è un anno di cambiamenti. Il successo di C’è chi dice no, due anni precedente, ha portato per la prima volta il cantante in tour negli stadi, ma alla fine del giro di concerti la Steve Rogers Band, che lo accompagna dai tempi di Colpa d’Alfredo, decide di staccarsi dal rocker e tentare la fortuna in proprio, assieme al produttore Guido Elmi. È l’estate di Alzati la gonna, per capirci, l’unico pezzo di successo della band di Riva, Solieri e compagnia. Rossi si trova in una posizione spiacevole, con le canzoni pronte per essere registrate ma senza il produttore e i musicisti di fiducia. Decide di assumere il controllo in prima persona, assieme a Tullio Ferro e ad una band composta da un paio di irriducibili che decidono di non andarsene. Uscirà qualche mese dopo con Liberi liberi, per certi versi un disco di transizione, per altri una delle migliori opere del suo catalogo. Dillo alla luna fa parte del repertorio romantico-epico di Rossi, quello dei pezzi che il pubblico canta forte dal vivo. La canzone non parla di niente, o comunque di niente che si possa identificare in maniera specifica a partire dal testo. Più esattamente parla di una persona che vuol sapere la verità su una certa cosa che non sappiamo. Potrebbe essere AIDS, un tradimento, la fine di una relazione, l’Inter che perde il campionato all’ultima giornata. È l’apice assoluto del disco, un classico istantaneo, uno dei grandi sassofoni del pop italiano. È un pezzo scritto sapendo che un giorno verrà cantato da una folla dentro a uno stadio, nel momento in cui Vasco Rossi stava diventando quel Vasco Rossi.
_
Vasco Rossi era il cantante che mio babbo odiava di più. Nelle sue parole, Vasco Rossi ha rovinato un’intera generazione. Mio babbo somigliava un pochino ad Asterios Polyp. La sua capacità di essere perentorio e definitivo in ogni opinione che si degnava di formare aveva dello sconvolgente, al punto da convincere mia mamma (una donna molto più brillante e capace di stare al mondo) di essere culturalmente incapace di stare al suo passo. La sua capacità di analisi era stratosferica in relazione al numero di informazioni che si prendeva il disturbo di reperire. La sicurezza incrollabile delle sue opinioni lo rendeva poco propenso a reperire tutte le informazioni che avrebbero confutato quelle opinioni. Era un genio a fare uno più uno ma aveva grossi problemi a fare due più due. Aveva previsto in tempi non sospetti il trionfo del Milan di Sacchi, ma anche la disfatta del Milan di Capello. Aveva capito che il centrodestra avrebbe prosperato con Silvio Berlusconi, ma credeva che l’Italia avrebbe risolto ogni problema finanziario abbassando di un punto il tasso ufficiale di sconto. Aveva previsto la vittoria del progetto di Romano Prodi nei primi giorni in cui il professore aveva iniziato a uscire allo scoperto, e aveva profetizzato che l’Ulivo avrebbe instaurato una dittatura comunista appena messo piede a Palazzo Chigi. Riconosceva modeste responsabilità criminali a Bettino Craxi, colpevole/vittima del sistema economico in cui era costretto ad operare, e colpe indicibili a Vasco Rossi, che considerava tra i massimi responsabili del dilagare de la droga nelle piazze periferiche dell’Italia di allora. La sua opinione su Vasco Rossi era largamente influenzata da quello che era in grado di vedere dal paesello in cui viveva negli anni ottanta, e dalla musica che usciva dallo stereo di suo figlio maggiore. Vasco Rossi aveva incassato i benefici dell’esser diventato, per puro caso, la voce di una generazione. Era solo giusto, immagino, che pagasse almeno una parte dei costi: la generazione di mio babbo non era pronta a capire l’eroina. Ancora adesso pensano che il modo di iniziare sia che gli spacciatori te la regalano fuori da scuola.
Ci vuole un po’ di tempo a capire la fallibilità della persona che ti insegna a stare al mondo, per quanto spiegabile. E un altro po’ di tempo a perdonarla. L’odio per Vasco Rossi della generazione dei nati-durante-la-guerra è stato una grande causa del successo di Vasco Rossi per i boomer, e viceversa. La paura dei comunisti che aveva mio babbo può senz’altro essere uno dei motivi fondamentali per cui sono diventato comunista. Condividere con lui l’odio per Vasco Rossi mi infastidiva. Ho sempre pensato che le sue canzoni fossero misogine, ma a ragion veduta non si può dire che Vasco sia più o meno misogino di qualunque altro cantautore italiano di pari successo. Era una ragione come un’altra per giustificare un sentimento più istintivo, l’idea di non volermi mescolare con i suoi fan. Non posso dire di amare la sua musica, ma amo alcune delle sue canzoni. La mia preferita si chiama Dillo alla luna. Se me lo chiedete fra due giorni magari ne scelgo un’altra.
Dicono che il successo dei Pantera fosse dovuto a tutto il pubblico di bifolchi che riuscivano ad attrarre; che non riuscissero a mandare sold out un posto di medie dimensioni a New York ma facessero il tutto esaurito in uno stadio del football in Kansas. Nel posto da cui provengo c’è qualche fanatico hardcore di Vasco Rossi, gente che l’ha visto dal vivo 54 volte -più concerti di quanti ne abbia visto di chiunque altro messo assieme. Ho dato per scontato che sarei esistito per tutta la vita in un posto del genere, e mi ci sono affrancato spostandomi di sette-otto chilometri per poi trovarmi a rimpiangerlo. Non sopporto le citazioni di Vasco Rossi nella cultura pop. Mi sembra di guardare una partita di tirassegno in cui usano i mattoni al posto delle freccette. Tutte le cose che odio e ho odiato di Vasco Rossi hanno un minimo comun denominatore: mi sono sempre sentito più intelligente del mondo che avevo attorno. Non è colpa mia. Sono stato educato a sentirmici.
_
Ho chiamato i miei insuccessi sfortuna
Maledetta sfortuna(Fine Before You Came, Vixi)
La mia generazione è stata forgiata dall’arrivo di internet. Abbiamo un ricordo (ormai vago) di com’era il mondo prima e di com’è stato dopo. I voli low cost hanno accorciato ulteriormente le distanze. Nel giro di un lustro siamo passati da Gianni ritornato da Londra a farci un weekend a Istanbul e tornare il lunedì mattina in ufficio senza aver manco dovuto prender le ferie. Se avete un’età paragonabile alla mia e siete appassionati di musica, ricordate il primo giorno di internet a casa vostra. Ti siedi, attacchi il programmino, capisci come si usa e Taaac, come diceva il santo protettore dei ragazzi di campagna. In un giorno del dicembre 2000 potevo improvvisamente avere gratis un sacco di musica che per una decina d’anni era quasi impossibile trovare anche pagando. Presto sarebbe stato possibile rimediare anche i film. Qualche anno dopo eravamo totalmente assuefatti a questo contesto, come se fosse sempre esistito, e non saremmo più stati in grado di guardare un film doppiato. La mia generazione è scolarizzata molto più di quella precedente, ha girato il mondo, ha letto più cose, o comunque ha potuto scegliere tra più cose da leggere. Oggi nella mia città ci sono 30/40 tipi diversi di ristorante etnico, nel ’93 mi pare ci fosse solo un cinese: mangiamo con le bacchette perché è importante usare le bacchette, e sappiamo tutti se la G in gyros è dolce o dura. Scoprire all’improvviso che il mondo era molto più grande di quel che pensassimo, e imparare ad esistere in scioltezza in questo mondo, ci ha obbligato ad abbuffarci e adesso non abbiamo più così tanta fame. I nostri genitori volevano essere meglio dei loro genitori, più evoluti, più ricchi, meno gretti, emancipati. Noi siamo stati scolarizzati all’idea che lo fossimo già, e in seguito cazziati perché non volevamo diventarlo. I nostri figli sono lanciati a rotta di collo verso lo stesso vicolo cieco, per altre ragioni che non staremo qui a sviscerare. Nel balletto delle nostalgie pelose tendiamo a romanticizzare aspetti del nostro passato di cui, nel quotidiano, facciamo a meno con molto entusiasmo.
Nel 2009 i Fine Before You Came pubblicano Sfortuna, in una situazione di relativa stasi creativa del punk/DIY italiano. La stagione dei blog sta pian piano cedendo il passo alla stagione dei social network. Per la prima volta da sempre nel giro sembra sentirsi un po’ di stanchezza. Il ricambio generazionale non sta arrivando, o comunque non abbastanza in fretta da garantire l’isolamento della generazione precedente in una riserva di nostalgici a cui prestare poco credito. I FBYC mettono giù una manciata di inni assoluti e rimettono in giro un botto di entusiasmo, quasi da soli. I testi del loro primo disco in italiano sono storie di vita vissuta e rimpianti e tutto quel pacchetto lì. L’inno supremo del disco e di quella stagione si chiama Vixi. Vixi non parla di niente, o di niente che si possa identificare in maniera specifica. Ho tirato pugni da ogni parte solo per uscire da un sacchetto di carta. Può essere la denuncia del fallimento di un’intera generazione o della difficoltà di alzarsi il lunedì mattina dopo i bagordi del weekend (“odio i lunedì”, disse Aristotele). L’impressione, quando i FBYC la eseguivano dal vivo, era che ci fosse qualcosa di grosso in ballo e che non tutto fosse ancora perduto. Così la gente saltava dal palco e si picchiava e la cantava forte. Maledetta sfortuna. I FBYC, si dice, sono fan totali di Vasco Rossi, e Vixi è una cover apocrifa di Dillo alla luna.
I concerti di Vasco Rossi continuano ad essere un’esperienza sfiancante, o almeno credo, ma meno di quanto lo fossero in quegli anni. La persona che compra i biglietti è un borghese, padre/madre di famiglia, che li paga con carta a sei mesi dall’evento e s’è segnato la data nel calendarietto da ufficio per non doverselo ricordare sotto data ed essere costretto a paccare last-minute la cena di fine anno scolastico della figlia, eventualità che lo metterebbe di fronte a un caso diplomatico irrisolvibile con la moglie. Ha bisogno di accorgimenti periferici, applica crema solare sul coppetto prima del tramonto, mantiene un’idratazione più che decente, non introduce bottiglie di lambrusco all’interno dell’arena e parcheggia in luoghi strategici per evitare gli ingorghi del rientro. Le condizioni sono migliorate grazie al libero mercato: le esperienze sono più umane perché la gente è più disposta a pagare un extra per un’esperienza più umana, un concetto che portato alle estreme conseguenze genera i Jova Beach Party. Vasco Rossi è sopravvissuto brillantemente al cambio di paradigma, l’ha reso per molti versi impercettibile e per altri assolutamente ovvio. Ogni ragionamento di causa ed effetto è subordinato all’evidenza che, pur avendo difficoltà a stare in testa alle classifiche, continua a piazzare centinaia di migliaia di biglietti ad ogni tour.
Vi sarete accorti com’è cambiata l’aria attorno a Raffaella Carrà dopo la sua morte. Prima della sua dipartita passava per la radio come se fossero i Village People all’amatriciana, oggi quando parte Ballo Ballo nell’aria c’è un’elettricità che ci fa sperare che prima o poi vada a sostituire l’inno di Mameli. Se vogliamo vederla in una prospettiva di lungo periodo e asciugare un attimo le lacrime che abbiamo versato a caldo, l’identificazione odierna di Raffaella come principale responsabile della liberazione sessuale dell’Italia nel dopoguerra vale esattamente quanto la demonizzazione del Vasco Rossi che insegnò ai nati nei tardi anni sessanta come prepararsi una dose di eroina. Ma dall’altra parte un’esagerazione sembra naturalmente chiamare il suo opposto, in una dialettica di scuse e accuse e scuse senza ritorno in cui il folklore del nostro paese sembra indugiare con particolare verve. Ad oggi è impossibile capire cosa potremmo essere oggi, come popolo, privati di Vasco Rossi. Se possa esistere un sistema Italia senza la sua popstar più rappresentativa, quella più pura e meno compromessa, quella che per molti versi il sistema-Italia l’ha plasmato, quantomeno nel suo lato musicale, incarnando sia il mainstream che l’alternativa, e senza compromettersi con nessuno dei due. La presenza di questo improbabile antieroe avatiano sembra ormai un fondamento del nostro paese, la condicio sine qua non per garantire che la società italiana non perda completamente la brocca (come disse Voltaire, è tutto un equilibrio sopra la follia). È più facile immaginare la fine del capitalismo che la fine di Vasco Rossi.
Non è impossibile che Dillo alla luna parli della fine di Vasco Rossi, in fondo. E forse il suo segreto è di essere finito così tante volte da essere già parte di un’eternità pagana, a cui prima o poi le cronache dovranno cedere il passo. La mia testa continua a dipingere Vasco Rossi nei volti di tutti i suoi fan, ma l’assurgere di Vasco a hub del paganesimo politeista dell’italiano medio ha reso potenzialmente impossibile condurre un’esistenza da italiani senza tifare almeno un pochino per quest’uomo. Così, insomma, anche io e tutti voi stiamo lentamente diventando Vasco ed è possibile che quel giorno ci troveremo tutti fuori dal balcone a urlare maledetta sfortuna.